MiBACT anno 2016: un Ministero, tante riforme, poche risposte.
In data 19 gennaio è arrivata una nuova riforma del MiBACT, a poco più di un anno dall’ultima, la decima dal 1974. Già i tempi fanno supporre che ci sia qualcosa che non funziona. Persone che conoscono il sistema meglio di noi hanno già detto la loro, e sono posizioni decisamente critiche: non possiamo né vogliamo lanciarci in accuse non adeguatamente provate, quelle le lasciamo a loro. Ma ci sembra necessario analizzare, in ogni suo aspetto, questa nuova riforma, e in particolare alcune questioni che balzano subito all’occhio, ma finora in buona parte ignorate. Il quadro che ne viene fuori, è un quadro con moltissimi dubbi, moltissime ombre, e ben poche risposte chiare.
Unificazione delle Soprintendenze: facciamo un tentativo?
Il Ministro Franceschini somiglia sempre più a un ridicolo allenatore che, appurato il fatto di non avere gli uomini adeguati per vincere le partite, invece di impegnarsi per comprarne di nuovi o rafforzare la squadra, inizia a cambiare vorticosamente schemi e tattiche di allenamento, ottenendo soltanto il fatto di creare caos e frustrazione nei giocatori che allena. Il Ministero é sotto organico e necessita di nuove assunzioni di professionisti qualificati (i 500 che saranno assunti non sono neppure in grado di far fronte ai pensionamenti), ma invece di battere cassa, Francheschini si lancia in due riforme in due anni, pensando che spostare le pedine possa fare miracoli. Ciò che otterrà, invece, sono solo ritardi, confusione, e, nella peggiore delle ipotesi, disastri, in particolare per quanto riguarda la tutela, la vera vittima di questa riforma, che rischia poi di produrre un pericoloso effetto domino. Il fatto che Franceschini sia un giurista che non ha nessuna esperienza professionale o di studio nei beni culturali, certo non lo aiuta in questi suoi tentativi rapidi e nati senza alcun confronto.
Quest’ultima riforma, triste a dirsi, sembra essere una risposta del MiBACT alla norma del silenzio-assenso introdotta nella legge Madia: il Ministero lotta, male, contro il Governo di cui fa parte. Accorpare le Soprintendenze per ottenerne una unica, che unisca Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, non è un fatto sbagliato in sé, anzi può portare a dei miglioramenti dal punto di vista burocratico, e maggiore comunicazione tra le aree (e sappiamo quanto ce ne sia bisogno in questo Paese); tuttavia, fare tutto questo a costo zero è semplicemente folle. Si perderanno mesi a riorganizzare tutto (dopo i mesi persi l’anno scorso per riorganizzare tutto!) e le nuove Soprintendenze si troveranno terribilmente sotto organico, e totalmente incapaci di assolvere a tutti i loro compiti: la Soprintendenza unificata avrà almeno sette aree funzionali e un Soprintendente unico che alla fine prenda le decisioni (che sia giurista, archeologo, storico dell’arte, nessuna differenza, nessuna pianificazione da questo punto di vista). Ma come possono funzionare queste sette aree distinte, se prima le Soprintendenze, che dovevano assolvere a meno compiti, erano già oberate di lavoro con pratiche che tardavano per mesi ad essere sbrigate?
Un sistema con un solo dirigente funziona se ogni area lavora adeguatamente; un sistema a Soprintendenze unificate può funzionare solo e soltanto se si procede con un adeguato numero di assunzioni qualificate. In caso contrario, si produrrà solo caos e la tutela del patrimonio culturale nazionale non potrà che risentirne terribilmente, soprattutto nel rapporto con il territorio. Come logico, in questa situazione sarà terribilmente difficile, se non impossibile, anche la valorizzazione del patrimonio stesso, per non parlare di ”educazione e ricerca” (inserite tra i compiti delle Soprintendenze ma del tutto inattuabili nella maggior parte dei casi).
Forse Franceschini, invece di procedere con un tentativo all’anno, dovrebbe sedersi al tavolo con il proprio Governo, con l’intenzione di ridiscutere in profondità il sistema e confrontarsi con il mondo dei beni culturali, per individuare un’agenda programmatica di priorità e una strategia per risolvere i problemi. Questo a partire dalle necessità di organico – per cui devono aumentare le assunzioni – e dal riconoscimento della dignità lavorativa dei professionisti.
Musei autonomi di interesse nazionale. Perché?
Sono stati nominati dieci nuovi musei e siti dotati di autonoma, dopo i venti dell’ultima riforma. I direttori saranno scelti per concorso internazionale. Dotare di autonomia un Museo è una scelta condivisibile, ma resta la grande disparità tra questi Musei (che sono in linea di massima famosi e conosciuti) e tutti gli altri. Inoltre, è a nostro avviso necessaria una maggiore attenzione alle potenzialità di un museo o di un sito culturale nella capacità di costruire relazioni sul territorio, collaborazioni con altri enti pubblici, forte dialogo con le comunità del posto, progetti di formazione e ricerca. Senza questa “valorizzazione sociale”, la “valorizzazione finanziaria” (pur molto rilevante) del patrimonio culturale affronterà solo una parte del problema e continuerà ad ignorare aspetti decisivi per restituire la cultura alla collettività e alla fruizione pubblica.
Tornando però alla nomina di questi nuovi dieci, non ci si può esimere da alcune domande. Ovvero: perché proprio questi? Quali criteri ha usato il Ministero per sceglierli? Qual è la strategia, l’idea, che sta alla base di queste scelte? La risposta la lasciamo al lettore, osservando la lista. Ma di certo i criteri utilizzati non sono per niente limpidi. Una concentrazione elevata in alcune regioni e città, e una mancanza totale in altre. Nessun Museo d’interesse nazionale in Sicilia, uno invece nelle Marche, una concentrazione elevatissima nella zona di Roma e uno solo a Venezia e nel Veneto, che pur è la regione italiana con maggiore afflusso turistico, e potremmo andare avanti, con aree intere del Paese totalmente ignorate.
Qual è la logica? Certo non il numero di turisti annuo né il potenziale turistico (il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, inserito nella lista, è rimasto chiuso per anni), certo non la distribuzione omogenea su tutto il suolo nazionale. Il Decreto non lo spiega in nessun modo. E invece sarebbe forse il caso di spiegarlo, di palesarlo. Per evitare disparità e dissapori, o per non alimentare dubbi. Che, inevitabilmente, sorgono. Per un Museo e un direttore autonomo è più facile muoversi e raccogliere fondi o valorizzare, ma anche dover rispondere a interessi “nazionali”, dunque direttamente al governo, e non locali.
Pensiamo sia il caso, prima di procedere alle nomine dei nuovi direttori, che il Ministero spieghi esattamente quali criteri abbia utilizzato.
Riforme così, create senza un confronto reale e raffazzonate in corsa, non possono portare a nulla di buono. Anche nei casi in cui, come sembra nel caso di un affannato e confuso Franceschini, nascano con intenzioni, tutto sommato, buone. Vogliamo chiarezza, vogliamo confronto, vogliamo investimenti.
Non vogliamo assistere in silenzio al lamento funebre per il nostro patrimonio culturale.
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Un Ministero, tante riforme, poche risposte – Mi riconosci? · 02/02/2016 at 13:18
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