Spunti e riflessioni per un nuovo attivismo professionale

L’antropologia, scienza di una professione non conosciuta né pienamente riconosciuta, in Italia non ha voce. E poiché si compone di esseri umani che studiano l’umanità dalle sue forme evolutive alle sue manifestazioni culturali, più volte è finita ad interrogarsi sul senso di sé stessa. Proprio per questo motivo, assai note sono le motivazioni che pongono i suoi professionisti ai margini del mercato del lavoro e del dibattito pubblico: l’antropologia è un sapere complesso, multiforme, critico (il che spesso lo rende fastidioso); non può essere definita né spiegata con poche e semplici parole; può avvalersi delle conoscenze di altre discipline affini, ma le adopera per scopi diversi; si svolge su tempi lunghi.
Si potrebbe già troncare qui il discorso con rassegnazione, come innumerevoli altre volte è stato fatto pensando allo stato disastroso in cui versa questo settore in Italia (maledicendosi anche un po’ per l’indirizzo di studi scelto con troppa incoscienza giovanile), per poi isolarsi nuovamente nelle proprie vicissitudini personali e professionali, troppo spesso lontane o dolorosamente estranee al sapere antropologico.

Sembra quasi che ci sia ormai ben poco in grado di sollevare la coltre di negatività che oscura il pensiero degli antropologi sul futuro della propria disciplina. Anche il neonato “Patto per il Lavoro Culturale” (su cui torneremo più avanti), che si sta diffondendo rapidamente in rete da poche settimane, ha ricevuto un’accoglienza piuttosto tiepida da parte del mondo dell’antropologia, al contrario di quanto sta avvenendo con altre categorie di professioni e professionisti dei Beni Culturali.


Eppure non si può più ignorare che, il 22 luglio 2014, il Parlamento ha approvato il DDL 110/14 (“Legge Madia”), il quale si propone di istituire degli elenchi nazionali dei professionisti dei Beni Culturali non ancora regolamentati e definirne le responsabilità; tra questi professionisti compaiono anche la figura dell’antropologo fisico e quella dell’antropologo culturale (definito “demoetnoantropologo”).

Il processo di regolamentazione, che doveva portare alla redazione di decreti ministeriali entro 6 mesi per permettere alla nuova legge di entrare a regime, purtroppo è ancora in corso; difficilmente sarà ultimato a breve. Nell’attesa, noi attivisti della campagna Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali ci siamo messi al lavoro e, a maggio 2016, abbiamo fatto pervenire al Ministero dei Beni Culturali una serie di indicazioni che possano spiegare quali sono le competenze e quali le problematiche riscontrate finora in tutte le professioni interessate dal DDL, dando anche alcuni suggerimenti su come regolamentare le stesse in base ai titoli di studio: è il documento “Verso il Riconoscimento: proposte e linee guida per il futuro (e il presente) dei beni culturali e dei loro professionisti.
Durante la redazione di questo documento, però, ci siamo resi conto di quanto fosse complicato inquadrare la situazione degli antropologi dal momento che, proprio perché spesso costretti a fare altro nella vita, non hanno mai costruito una forte comunità professionale attiva nella scena pubblica in grado di rivendicare degli obiettivi per i propri professionisti. Abbiamo quindi deciso (alcuni di voi lo ricorderanno) di chiedere un parere ai diretti interessati creando un sondaggio online.
Disponibile dal 5 aprile 2016 sulla pagina Facebook della Campagna, il sondaggio ha avuto una discreta diffusione in tutte le reti social nei giorni successivi, fino a raggiungere un numero complessivo di 277 partecipanti anonimi tra antropologi fisici e culturali, lavoratori e ancora studenti.

Siamo ben consci della problematica che presenta la biforcazione dell’antropologia e l’enorme diversità di contenuti che questi due tipi di professionisti apprendono, pur chiamandosi lo stesso “antropologi”. Tuttavia, data l’urgenza che avevamo di confrontarci con quanti più antropologi possibile in un lasso di tempo ristretto, abbiamo scelto di creare un unico sondaggio per entrambi gli indirizzi, anche al fine di facilitare la diffusione in rete. Di conseguenza, sia perché tutte e due le categorie sono sottorappresentate, sia perché entrambe sono oggetto del DDL 110/14, anche in questo articolo parleremo dell’antropologia culturale e dell’antropologia fisica insieme. È desiderio della campagna Mi Riconosci? approfondire il tema del divario tra queste due branche della disciplina, ma ciò dovrà essere fatto necessariamente in altra sede, con un’attenzione specifica.

Chiamare “sondaggio” questo nostro espediente è sicuramente eccessivo: lungi dall’avere qualsiasi pretesa di scientificità o valore statistico, si compone di poche domande suddivise in due blocchi, uno per ciascun indirizzo antropologico, in cui vengono chieste opinioni riguardanti soprattutto la formazione universitaria; infine in un terzo blocco unico, abbiamo inserito due domande a risposta aperta per offrire agli “informatori” l’occasione di esprimersi su quale possa essere il ruolo dell’antropologia in Italia ed altre considerazioni libere.

I loro interventi sono stati assai preziosi per la stesura del nostro Documento e vogliamo cogliere l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno dedicato qualche minuto del loro tempo per aiutarci. Ma oltre a questo, al di là dello scopo per cui era stato creato il questionario, siamo rimasti stupiti nello scoprire la voglia di raccontarsi che hanno espresso i partecipanti.

Con nostra grande sorpresa, infatti, le domande a risposta aperta hanno generato decine e decine di commenti, anche piuttosto lunghi, sulle condizioni lavorative o di studio. Ma ci sono anche riflessioni intelligenti, problematiche da risolvere, aspettative, timori e speranze.
277 antropologi (e futuri antropologi) non possono certo essere rappresentativi di tutta la categoria né – lo ribadiamo – il nostro sondaggio ha la presunzione di farlo, ma le risposte ci hanno colpito, sia nel numero sia nella qualità. Per questo, oggi, in occasione dell’ Anthropology Day patrocinata dall’American Anthropological Association, abbiamo deciso di rendere pubbliche queste risposte per fare insieme qualche riflessione.

Il primo dato che sorprende, nelle risposte, è che oltre il 75% degli antropologi fisici e il 67% degli antropologi culturali non erano a conoscenza del DDL 110/2014 sopra citato. Un dato che, seppur non rappresentativo, colpisce non poco.

Alcuni antropologi, poi, ci hanno permesso di comprendere meglio la situazione estremamente complicata in cui si trova l’antropologia fisica, a partire dalla formazione:

“Non esistendo corsi di laurea specifici, si deve obbligatoriamente scegliere tra archeologia, scienze naturali e biologia. Questi corsi di laurea non danno il titolo di antropologo (fatta eccezione per biologia, ma in questo caso si deve parlare di antropologo molecolare!), quindi effettivamente in Italia non esiste un corso di laurea che permetta di poter ottenere il titolo di antropologo fisico!”


Un percorso disomogeneo che porta inevitabilmente alle difficoltà nell’inserimento lavorativo che ben conosciamo.

“Ho lavorato 10 anni come antropologa fisica, svolgendo la mia attività come libera professionista nei cantieri archeologici. Purtroppo ho avuto modo di constatare che spesso, il nostro ruolo viene ricoperto da professionisti in altri campi, che magari hanno seguito un esame di antropologia all’università ma non hanno altre conoscenze specifiche. Nonostante la nostra professione abbia ottenuto un riconoscimento legale nel 2014, questo non è ancora avvenuto “sul campo”. Così come è obbligatoria la presenza di un archeologo durante gli scavi di emergenza, dovrebbe essere obbligatoria la presenza di un VERO antropologo fisico in presenza di sepolture.”

“Se mi posso permettere, ritengo opportuno semplicemente sottolineare come ancora oggi la figura dell’antropologo fisico sia confusa tra ambito accademico e ambito professionale-beni culturali. Infatti sarebbe necessario che la figura dell’antropologo fisico presso il Mibact fosse un professionista con formazione prevalentemente umanistica e con esperienza “sul campo archeologico” per poter svolgere un ruolo di tutela e conservazione adeguato al contesto dedicato ai resti umani. Decisamente diverso dalla figura, nel settore accademico esclusivamente biologica-medica, che si dedica puramente alla ricerca e, giustamente, al lavoro di pubblicazioni e carriera in quel settore disciplinare. La chiarezza dei titoli di accesso eviterebbe il dilagare di non professionalità nel campo archeologico ed eviterebbe la confusione di ruoli, e, al contrario, secondo me, potrebbe incrementare la consapevolezza e, aupico, la collaborazione costruttiva, tra due figure legate allo studio dei resti umani che sono da ritenersi ben distinte (per es. negli USA, l’antropologo fisico non è un tuttologo: esiste in ambito giudiziario-forense, in ambito museale come conservatore delle collezioni, in ambito archeologico come esperto da campo sui resti umani, in ambito accademico per l’insegnamento in università e la ricerca). Ringrazio per aver proposto questo interessante sondaggio.” 

L’antropologia culturale risente soprattutto di una sistematica mancanza di applicazione pratica già all’università

“Carenza di formazione altamente qualificata. Monopolio di poche università. Disinteresse dei docenti nei confronti delle prospettive professionali.”

“Basti mettere a confronto un programma di Laurea italiano con quelli esteri per comprendere le discrepanze e i problemi del percorso formativo. La maggior parte degli studenti che escono dai master di antropologia all’estero esercita la professione di antropologo in vari settori, non per la teoria che hanno studiato, ma per la sensibilità metodologica e gli skills che hanno acquisito durante il training. Se i contesti non accademici non conoscono le potenzialità della figura professionale dell’antropologo è perché 1) tali potenzialità non vengono sviluppate adeguatamente nel percorso formativo; 2) la figura dell’antropologo professionista non è ancora chiara nell’ambito accademico italiano”

“Mi rammarica conoscere tantissimi antropologi che utilizzano le loro conoscenze in diversi campi lavorativi senza che nessuno riconosca loro certe capacità che solo lo studio dell’antropologia può darti.”


Gli insegnamenti vengono considerati talvolta troppo dispersivi, talvolta validi ma con poca attenzione alle esigenze del mondo del lavoro e, più in generale, ai mutamenti della società (che paradosso!). Sebbene riconoscano il merito della versatilità della disciplina, molti nostri intervistati sembrano ritenere che l’incapacità di espressione concreta sia il principale problema dell’antropologia italiana anche una volta fuori dalle aule accademiche, mentre la conseguente invisibilità professionale ha ripercussioni non solo per gli antropologi ma anche per chi dovrebbe assumerli. Servono tutele, riconoscimento e maggior attenzione all’esperienza pratica:

Vorrei spendere solo due parole per sottolineare l’inadeguatezza del sistema universitario italiano. L’anticamera di questa professione è la ricerca, la ricerca è cultura e la cultura non riceve più finanziamenti. Un antropologo culturale che non conduce delle ricerche non può più definirsi tale.”

“Sono laureata dal 1995 e ho dedicato una buona fetta della mia gioventù allo studio e alla ricerca in campo antropologico , attività che ho svolto con dedizione e passione accumulando una notevole esperienza che a poco è valsa visto che da quasi 10 anni non riesco a svolgere più questo lavoro peraltro mai ufficialmente riconosciuto anche dal punto di vista retributivo.

“Problema che credo valga la pena discutere è quello della mancata possibilità di molti servizi pubblici di inquadrare – da un punto di vista contrattuale – gli antropologi e le antropologhe”

“Bisognerebbe forse precisare, anche per l’opinione pubblica, come i promotori del riconoscimento della figura professionale dell’antropologo intendono tale ruolo al di fuori dell’università e dell’insegnamento, con esempi concreti, soprattutto in relazione a un mondo del lavoro cognitivo in fortissima trasformazione e un mondo del sociale e dell’amministrazione che ha bisogno di nuove figure. Gli antropologi, proprio perché difficilmente identificabili con professioni tradizionalmente chiare al senso comune, deve essere una professione di frontiera e forse pionieristica nel mettere le sue competenze al servizio di nuovi ruoli di cui si avrà sempre più bisogno, nell’informazione, nelle nuove tecnologie, nelle istanze di discussione morale e di presa di decisioni politiche, nella mediazione culturale, nell’indagine sociale e nel supporto alle politiche pubbliche. Il problema sarà comunque che, come per tutte le nuove figure professionali che non sono create dal mercato ma da bisogni civili e sociali, ci sarà sempre un ritardo nel loro riconoscimento, anche in termini retributivi. L’anthropologie est un sport de combat.”


Nonostante l’enorme senso di ingiustizia che traspare dai contributi dei partecipanti, antropologhe ed antropologi di entrambi gli indirizzi hanno ben chiaro quello che la disciplina potrebbe, dovrebbe e sarebbe lieta di offrire:

“L’antropologo fisico è colui che si occupa dello scavo, della tutela e dello studio dei resti scheletrici antichi e delle popolazioni del passato. Ha le competenze storiche, archeologiche e biologiche per comunicare le informazioni del suo studio sia dal punto di vista della valorizzazione dei siti sia dal punto di vista comunicativo (allestimenti museali).”

“Il ruolo adeguato alle competenze per cui hanno studiato e dedicando tempo e passione alla ricerca finora spesso non adeguatamente riconosciuta anche in termini economici. Sono tra le poche figure professionali a poter adeguatamente fare ricerca sui reperti ossei umani date le competenze acquisite nel campo della anatomia umana .”

“Credo dovrebbero essere presenti in ogni area sociale. Soprattutto in contatto con minoranze, emarginazioni. La scuola interazziale di oggi dovrebbe avete l’obbligo di inserire un antropologo culturale affinché sia mediatore e formatore (sia per bambini che per adulti)”

“Figure che aiutano la comprensione delle dinamiche sociali e promuovono la messa in discussione delle nostre categorie per esseri aperti alle trasformazioni e all’incontro con l’alterità.”

“Favorire il dialogo tra i membri che utilizzano i servizi di una società, in un’era in cui il dialogo interculturale diventa più difficile. Aiutare a vedere la diversità come qualcosa di positivo”

“Credo che dovrebbero essere dei consulenti (sia a livello di politiche che di amministrazione, così come di informazione), credo anche che dovrebbero essere dei formatori di educatori, operatori sanitari vari e tutti coloro che svolgono delle mansioni a contatto con culture differenti.”


Molto interessante è anche questa riflessione sul mestiere dell’antropologo, in cui ci si chiede se esista un’effettiva necessità di due distinti indirizzi della disciplina:

“In Italia è una figura praticamente inesistente, se non per i fortunati che entrano nella carriera accademica, ma nemmeno uscendo con 110 con lode si può riuscire ad accedervi. Non ci sono ambiti delineati e specifici per un demoantropologo, nemmeno nei musei demoantropologici si trovano. Non esiste un pensiero a priori che sappia riflettere organicamente sull’antropologia. Si parla della possibilità e delle condizioni di creare un albo di a. culturali professionisti, ma bisogna anche garantire a priori delle opportunità di lavorare nel proprio settore (sono laureata e disoccupata da due anni pur cercando qualsiasi lavoro, ma non vedo dove mai potrei fare l’antropologa) . Per esempio la divisione tra antropologi fisici e culturali, perché non far intrecciare i percorsi? Per esempio per sviluppare figure professionali che si possano inserire e fare da ponte in e tra scuole e musei. Se uno volesse fare percorsi formativi su temi ecologici o sulla preistoria e sulla storia manca sempre qualcosa: i primi due sembrano ambito degli a. fisici, ma ci vogliono anche conoscenze che vengono dall’ambito educativo; viceversa un a. culturale manca di specifici esami nel settore BIO e in quello museale. Oppure nelle cooperative, nelle associazioni che si occupano di campagne e/o educazione ambientale, chiunque può fare il lavoro dell’antropologo (ma anche dell’educatore – sono laureata anche in scienze dell’educazione) nei settori educativi e interculturali.”


Tutte le risposte al nostro sondaggio possono essere scaricate in formato pdf   cliccando qui!.


Forse chi legge, una volta presa visione dell’anteprima di questi commenti, si starà chiedendo perché divulgarli, dal momento che – ancora! – sono tutti problemi aassai noti. Perché adesso, a quasi un anno di distanza dal lancio del questionario?
Diffondiamo questi dati perché, seppur non rappresentativi a livello statistico, speriamo che vi colpiscano come hanno fatto con noi, augurandoci che possano alimentare dibattito tra i professionisti dell’antropologia. Sono pensieri che, secondo la nostra interpretazione, mostrano grande scoramento ed impotenza, ma anche un certo senso di insofferenza e di urgenza, o speranza di cambiamento.
In effetti, soprattutto sul web, qualcosa si sta muovendo e già esistono organizzazioni e pagine social che, speriamo, acquistino nel tempo sempre più rilevanza. Volendo citare solo pochi esempi, per gli antropologi fisici esiste l’Associazione Antropologica Italiana (AAI) ma anche la pagina Professione Antropologo, che accoglie anche i professionisti del ramo culturale, così come Antrocom, sito di articoli in italiano ed inglese; L’antropologia culturale ha la Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) che dal 2013 organizza convegni annuali in varie città d’Italia, l’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche (AISEA) e l’Associazione Nazionale Professionale Italiana d’Antropologia (ANPIA), di recente fondazione.
Ma divulghiamo il sondaggio e scriviamo questo articolo anche perché, come campagna Mi Riconosci?, vogliamo offrire alle professioniste e ai professionisti dell’antropologia un punto di vista ed uno strumento in più. Perché temiamo che ci sia ancora troppa paura ad esporsi, a credere in un cambiamento e a credere che, in Italia, la propria professione e la propria materia di riferimento possa ottenere la dignità e la centralità che merita.
Quel che noi abbiamo dedotto anche grazie all’esito di questo sondaggio è la necessità per gli antropologi di ritrovarsi, dialogare, unirsi e formare una comunità professionale, prima ancora di qualsiasi rivendicazione. Meglio ancora: accantonando per un attimo la pulsione squisitamente etnologica di problematizzare questo sostantivo, osiamo dire che gli antropologi italiani hanno bisogno di costruire un’identità professionale.
Perché oggi più che mai i temi caldi del dibattito pubblico riguardano la crisi della globalizzazione, l’integrazione, l’immigrazione, la multiculturalità, la percezione del corpo e delle malattie, il genere e la sessualità, ma la parola viene data ai populisti e ai demagoghi di turno anziché agli antropologi, esperti del settore.

Perché non può più essere giustificabile un mondo del lavoro che conferisce arbitrariamente ad altre figure professionali più in vista le competenze che solo lo studio dell’antropologia può garantire;

Perché non è più ammissibile un atteggiamento che minimizza l’importanza e la dignità della scienza antropologica, degradando a semplice “hobby” un serio percorso di studi a cui ricorrere solo per intrattenere amici, parenti e commensali con curiosi aneddoti etnografici.
Perché è inaccettabile che, in Italia, chi ancora studia o sta per laurearsi si ritrovi da solo in mezzo a tante porte sbarrate, PhD, abilitazioni, concorsi e master non accessibili alla categoria. E una miriade di facce che li fissano in modo interrogativo, tra un “Ma quindi cos’hai studiato?” ed un “Cos’è l’antropologia?”.
Perché è intollerabile che eventuali datori di lavoro pretendano gratis quelle che, di fatto, sono consulenze professionali, frutto di anni di studio e fatica.
Mai come ora l’antropologia in Italia avrebbe molto da dire nel dibattito pubblico e molto aiuto da dare, ma prima di tutto è importante che gli antropologi stessi facciano un ultimo sforzo intellettuale: smettano di rassegnarsi al mancato riconoscimento professionale giustificandolo con la complessità della materia, smettano isolarsi tra loro e ricomincino a credere nella disciplina che hanno studiato e che amano, ridandole dignità.


L’abbiamo già citato in apertura: la Campagna Mi Riconosci? ha creato e sta promuovendo il PLaC – Patto per il Lavoro Culturale. PLaC è un codice etico, uno strumento per riscoprirsi di nuovo Professionisti, non isolati ma membri di un’ampia comunità, e combattere il triste fenomeno post-lauream del non riconoscimento professionale che interessa tutti coloro che si occupano di Beni Culturali, compresi gli antropologi di entrambi gli indirizzi (che, per il sistema legislativo italiano, sono entrambe professioni dei beni culturali che fanno riferimento al MIBACT). Sottoscrivendo il PLaC ci si impegna a non accettare più la dequalificazione del lavoro, gli impieghi gratuiti o sottopagati e la scarsa considerazione del ruolo delle proprie competenze professionali.
Certo, non basterà solo questo per rilanciare l’antropologia fisica e quella culturale in Italia; ma se pure queste scienze stanno per essere regolamentate ufficialmente dallo Stato, non c’è più tempo per lasciarsi andare al pessimismo, alla rassegnazione e all’immobilità. In questa situazione, il PLaC può rappresentare un inizio.

Un punto di partenza che può far riflettere sul modo in cui fino ad ora chiunque, persino gli stessi antropologi nella loro esperienza individuale, ha sempre pensato alla disciplina. E da qui riplasmarla, scoprendo ancora una volta che è possibile darle nuova vita. Perché bisogna ricordarsi che l’antropologia, così come la cultura stessa, non è una conoscenza granitica ed imperturbabile, che esiste a prescindere dagli esseri umani: l’antropologia assume le sembianze di chi la mette in pratica.

Antropologhe ed antropologi, coraggio! La strada è molto lunga e c’è ancora tanto da costruire per il nostro futuro. Iniziamo a farlo insieme.


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