Gran parte della stampa nazionale, quella che aveva difeso la riforma Franceschini e che da anni auspica con forza la cessione del nostro patrimonio pubblico in gestione a soggetti privati, non ha avuto dubbi: l’ultima riforma del Ministero dei Beni Culturali, firmata dall’ex ministro Alberto Bonisoli, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 7 agosto, entrata in vigore il 22 e portata avanti con una serie di decreti devastanti a cavallo di Ferragosto, è una “controriforma”. É normale che quei media si sbraccino nel tentativo di farle apparire alternative: si tratta di una banale tecnica retorica utile a blindare le presunte “conquiste” (leggi “interessi lobbysitici”) della riforma Franceschini. Per fortuna non ci stanno riuscendo, e non solo perché, analizzando i documenti senza pregiudizi ideologici, diversi opinionisti indipendenti come Salvatore Settis o Federico Giannini hanno sottolineato molto bene l’evidente continuità tra le due riforme. La retorica della “controriforma”, già debole nelle argomentazioni, si è schiantata immediatamente contro l’evidenza dei fatti: prima Alberto Bonisoli ha permesso a quasi tutti i direttori di Musei autonomi nominati da Franceschini di rimanere in carica, poi Dario Franceschini è stato nominato ministro, e chiaramente il neonato governo PD-M5S non appare avere nessuna intenzione di rimettere in discussione questa supposta “controriforma”. Il perché è semplice: la riforma Bonisoli non scalfisce nessuno dei capisaldi della riforma Franceschini, e soprattutto non ostacola, ma anzi facilita, gli obiettivi finali del progetto.
L’ultima riforma del Ministero dei Beni Culturali è un mostro complesso, difficile da spiegare e da comprendere. Analizzandola nel suo contesto, però, appaiono chiari anche gli obiettivi.
La riforma accentra, accentra tantissimo, accentra chi controlla il denaro e chi prende le decisioni: crea uffici esportazione centralizzati, toglie competenze alle periferie, istituisce uffici con compiti ispettivi del centro rispetto agli istituti decentrati, dona poteri enormi al Segretario Generale, e centralizza tutti gli appalti e le concessioni. Per alcuni commentatori questo è un bene, per noi no, ma comunque la si veda, si tratta semplicemente di accentrare le decisioni e il denaro in pochi uffici e in poche mani, e rendere il ministero succube di un uomo di nomina puramente politica (il Segretario Generale). La politicizzazione del Ministero era uno degli obiettivi anche della riforma Franceschini.
Poi c’è la divisione tra tutela e valorizzazione, con la scissione tra Soprintendenze e Musei: pessima, disfunzionale, introdotta da Franceschini e criticata soprattutto da chi si occupa di tutela, è stata mantenuta uguale a sé stessa. Curioso per una supposta “controriforma”. Le Soprintendenze uniche, caotiche, incapaci di offrire i servizi necessari ai cittadini, sottofinanziate in quanto prive di qualsivoglia sostentamento proveniente dalle proprie attività sul territorio, sono ancora lì, addirittura elogiate dall’ormai ex ministro Bonisoli. Gli Archivi di Stato sono stati addirittura depotenziati, diventando semplici uffici delle Soprintendenze Archivistiche.
I Musei autonomi, vero feticcio della Riforma Franceschini, sono ancora al loro posto, anzi sono di più e più grandi, molto più grandi: il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, ha inglobato tutti i musei nazionali etruschi del Lazio e della Toscana; la Pinacoteca di Brera ha inglobato il Cenacolo di Leonardo da Vinci; il castello di Miramare di Trieste ha inglobato tutti i musei statali dell’intera regione, e via discorrendo. I Musei autonomi sono più grossi e potenti, in alcuni casi (come il nuovo mostro Uffizi-Accademia) vere macchine da centinaia di migliaia di biglietti staccati. Ma sono “meno autonomi”, questo sì: perdono il loro Consiglio di Amministrazione, e le decisioni economiche saranno prese a Roma e non più nell’istituto. Si tratta dell’unico elemento di discontinuità rispetto alla riforma Franceschini. Ma è un elemento isolato, e può essere spiegato in un solo modo, su cui arriveremo a breve. Dobbiamo sottolineare che otto dei musei autonomi diventano “super musei”, acquisendo un dirigente amministrativo ad hoc: sono i musei che hanno più visitatori e fruttano di più. E la riforma introduce la possibilità di spostare le collezioni da un istituto all’altro, se la Direzione Generale Musei lo decide.
Fin dal primo giorno, abbiamo letto questa riforma, e in particolare la riforma dei Musei, come un passo ulteriore verso la trasformazione dei Musei statali in Fondazioni private: esattamente l’obiettivo finale della Riforma Franceschini. Il perché di questa nostra lettura è semplice: una infinita serie di elementi all’interno della riforma Bonisoli hanno senso solo se visti in quest’ottica. I nuovi mega istituti autonomi che inglobano di tutto saranno incapaci di funzionare con una direzione centralizzata unica, e senza CdA saranno di fatto bloccati e ben poco funzionali: i dipendenti e i cittadini saranno frustrati dal malfunzionamento di questi nuovi istituti. La nomina di nuovi dirigenti amministrativi che non avranno possibilità di amministrare non ha alcun senso, se vista come scelta definitiva e non transitoria. E il CdA…. beh, il Museo Egizio di Torino non ha un CdA. Neppure il MAXXI di Roma ce l’ha. Le Fondazioni che gestiscono quei musei hanno un CdA, sì, formato da persone nominate a piacimento dai soggetti pubblici e privati che fanno parte della Fondazione. I Musei autonomi creati da Franceschini avevano tantissimi difetti (dai processi di nomina dei Direttori all’avere un’autonomia solo finanziaria), e drenavano tantissime risorse che prima arrivavano ai musei minori del territorio. Ma rendevano chiaro come un Museo statale autonomo potesse svolgere egregiamente il suo compito senza alcun bisogno di essere trasformato in Fondazione. Dopo la riforma Bonisoli invece i Musei autonomi sono troppo grossi, troppo disfunzionali, troppo poco autonomi, privi di senso: ed ecco il fine, preparare il terreno alla trasformazione in Fondazioni private. In perfetta continuità con la riforma Franceschini. La cancellazione dei CdA va nello stesso senso: non serve un CdA al Museo autonomo, perché la Fondazione che lo gestirà costituirà il suo CdA.
Non chiamatela controriforma, non bevetevi la bufala che questa riforma serva a impedire l’autonomia regionale, non vi è alcun elemento che sia in grado di corroborare queste argomentazioni. L’intera riforma ha il solo obiettivo di concentrare risorse, fondi e decisioni, creando un Ministero sempre meno funzionale, per preparare il terreno (anche attraverso la frustrazione dei dipendenti) a un passaggio successivo: la trasformazione dei Musei statali in Fondazioni private. E dunque all’abbandono e alla dismissione di tutto il resto. Trasformazione che, nelle intenzioni del Governo (quello di prima, e pure questo) dovrà essere resa possibile da un nuovo Codice dei Beni Culturali, che sarà scritto nei prossimi mesi. Per questo dobbiamo fermarli ora, ci hanno preso in giro per troppo tempo, il processo va arrestato prima che tutto sia venduto. Iniziamo venerdì 6 settembre, con una serie di presidi e azioni in tutta Italia. E non ci fermeremo.