Intervista a Lara Comis, sul suo intervento di protesta a TourismA 2016
La dott.ssa Lara Comis, il 21 febbraio 2016, doveva intervenire a TourismA, il Salone Internazionale dell’Archeologia, a Firenze: precisamente alla tavola rotonda “Il Piacere della Storia: turismo archeologico e living history”.
Ha deciso, però, di non offrire la sua professionalità gratuitamente: spiazzando tutti, si è rifiutata di proseguire la discussione, chiedendo che si spostasse l’attenzione sulla situazione dei professionisti dei beni culturali; dopo un’animata discussione, di fronte a un’evidente impossibilità di discutere seriamente il problema, ha abbandonato il tavolo.
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Lara ha esplicitamente citato la nostra campagna. Per questo, e perché abbiamo apprezzato la sua protesta, civile ed efficace, abbiamo deciso di porle alcune domande: su di lei, sulla situazione dei professionisti dei beni culturali e sulla sua protesta.
La ringraziamo per le risposte, che vi invitiamo a leggere!
Puoi spiegare a chi ci segue chi sei? Qual è la tua storia professionale?
Ho conseguito la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università della Tuscia (VT) e successivamente un master in Experimental Archaeology alla University of Exeter (UK). Già poco dopo la laurea ho cominciato a lavorare come dipendente per ditte archeologiche nel nord Italia, svolgendo mansioni di scavo stratigrafico e svolgendo indagini storiche. Di ritorno dall’Inghilterra, a parte una breve parentesi lavorativa nella quale ho scritto un programma di ricerca sperimentale, sono dovuta tornare sui cantieri, vista la difficoltà oggettiva di mettere a frutto un titolo pressoché sconosciuto nel mondo italiano. Ho incominciato in quegli anni a fare parte attivamente del network internazionale EXARC (su temi invece specificamente inerenti alla mia formazione post-lauream) e ne ho seguito i lavori ininterrottamente sino ad oggi, come ricercatrice indipendente, parallelamente al lavoro di archeologa professionista. Tra i miei impegni lavorativi e professionali, oltre ad operazioni di tutela e valutazione preventiva, ho coordinato programmi didattici per le scuole primarie e, tramite forme di associazionismo senza scopo di lucro, ho progettato e realizzato iniziative di divulgazione attiva del patrimonio archeologico e corsi di formazione per operatori del settore in collaborazione con l’IBC. Con EXARC ho svolto diverse mansioni: ho partecipato attivamente a conferenze in Italia e all’estero; collaborato alla scrittura di progetti EU; contribuito alla promozione ed alla implementazione del network in Italia, entrando in contatto con enti, istituzioni, gruppi di rievocazione, professionisti nella progettazione di eventi. Alla fine del 2012 ho dovuto però chiudere la partita IVA poiché non era più possibile affrontare la difficoltà incontrata nei pagamenti ed ho definitivamente lasciato l’archeologia dei cantieri. Da allora, ho svolto attività lavorative in altri settori, mentre il contatto con il mondo dell’archeologia sperimentale, della musealizzazione attiva e di temi correlati si è limitato alla partecipazione come docente a corsi di formazione e conferenze su territorio Italiano o a lavori di progettazione provenienti dall’estero. L’ultimo invito ricevuto però, mi ha molto stupito: per la prima volta (e l’ultima, direi) la mia presenza alla tavola rotonda di TourismA era stata richiesta a titolo integralmente gratuito. Questa “offerta” mi ha definitivamente convinto che la mia carriera è totalmente priva di prospettive: sono un mediatore culturale senza futuro. Perlomeno in Italia.
Vedendoti sia a Firenze, sia in video, molti avranno pensato “c’erano modi più corretti e opportuni di questo, per denunciare il problema”. Perché hai deciso di lanciarti in una denuncia così forte, e così plateale?
Francamente, non credo che il mio intervento sia stato inopportuno e nemmeno che sia stato scorretto. Credo che sarebbe stato scorretto se avessi fatto finta di niente, come accade spessissimo a molti colleghi che dovrebbero potersi guadagnare da vivere onestamente con il loro lavoro e che invece “fanno finta di niente” perché “tanto in Italia funziona così”. Come ha dichiarato uno dei rappresentanti del mondo professionale presente alla tavola rotonda, si crede che non debbano essere i lavoratori a rifiutare i lavori gratuiti, ma debbano essere le istituzioni preposte a pretendere una qualità professionale e retribuirla adeguatamente. E la finalità di questo ragionamento è quella di “rimanere sul mercato”. Non sono del tutto d’accordo. Aderire a questa ipocrisia di base svaluta la professionalità dei singoli operatori nell’ambito culturale, il valore del mercato del lavoro nell’ambito dei beni culturali e di conseguenza il valore del bene culturale stesso, che trascina anche gli enti preposti in una spirale “al ribasso”: è questo processo che sta falsando enormemente una sana gestione economica del patrimonio. Ogni soggetto coinvolto in questa catena è responsabile della propria parte, ed è una inutile perdita di tempo giocare a rimbalzarsi le colpe da un soggetto all’altro senza essere coscienti della consequenzialità delle azioni. Dovrebbero essere per primi i professionisti a riconoscere il valore del loro lavoro e il lavoro altrui. Cosa che, pur di “rimanere sul mercato”, accade davvero raramente. Insomma, è inutile fregiarsi di essere dei professionisti se non ci si attiene ad un’etica professionale. Preferisco di gran lunga dichiararmi “fuori dal mercato” piuttosto che appoggiare un sistema dannoso.
Se è vero che il mio intervento è stato “forte”, e che ad alcune persone è apparso inadeguato al contesto, inopportuno e fastidioso, devo ricordare che mi trovavo a quel tavolo a titolo totalmente gratuito. Se avessi aderito facendo finta di niente, adeguandomi allo standard imperante, avrei denunciato esplicitamente, non con le parole, ma con le mie azioni, che il mio lavoro non valeva niente. Invece non credo proprio che sia così. Non ho bisogno di dimostrare a nessuno quanta “qualità” risieda nelle mie competenze. Quindi, che senso aveva investire io stessa in tempo e denaro e competenze e conoscenze in un ben conosciuto rituale che celebra la fine del lavoro nei beni culturali in Italia? No, grazie. Ho parlato per me, sapendo che parlavo per tanti. Ho parlato perché il momento era giusto, perché le condizioni erano inaccettabili. Ho parlato anche nel rispetto dei miei committenti precedenti, che hanno riconosciuto il mio lavoro. Sono andata lì solo ed esclusivamente per portare questo messaggio, nello stesso contesto dal quale era nato il problema. Ho preso sulle mie spalle la mia responsabilità, come piccola parte di un ingranaggio che non funziona. Credo sia il caso di ribadire che ho richiesto che la tavola rotonda spostasse il tema di discussione sul riconoscimento dei professionisti nell’ambito che stavamo affrontando, poiché la condizione in cui mi trovavo mi spingeva a questo oppure ad abbandonare la discussione, considerato che avevo già “regalato” abbastanza della mia professionalità.
Hai ricevuto calorosi applausi, in particolare in tre momenti: all’inizio dell’intervento di denuncia, quando hai detto “manca una politica culturale” e sull’affermazione “non siamo venditori di caramelle”. Ti aspettavi tale reazione, pur in un contesto in cui, oggettivamente, hai fatto la parte della “guastafeste”? Come la giustifichi?
Sono rimasta sinceramente stupita. Ma credo che la reazione spontanea si sia verificata solo per l’oggettività delle cose dette. Il discorso potrebbe dilungarsi molto, cercherò di sintetizzare brevemente. Per il riconoscimento dei professionisti dei beni culturali, credo sia chiaro che la posizione che ho portato avanti sfortunatamente non appartiene esclusivamente a me ed al mio ruolo di mediatore culturale, ma è condivisa anche nell’ambito del turismo culturale, della organizzazione eventi e della rievocazione storica (per tacere ovviamente di archeologi, archivisti, restauratori, antropologi etc etc). Per quanto riguarda la politica culturale, l’assenza è inquietante e pienamente avvertibile, in ogni sua possibile determinazione. Credo che questa situazione sia il frutto di una valutazione oltremodo superficiale e minata da stereotipi ormai datati che non consentono alla classe politica di sviluppare una qualsivoglia strategia anche minimamente lungimirante. Il “non siamo venditori di caramelle” voleva sintetizzare invece la necessità di un marketing realmente adeguato ai Beni Culturali, che, trattandosi di un sistema complesso di interazione tra risorse umane, patrimonio e mercato e relativi enti e singoli e, non ultimo (anzi, dovrebbe essere prima di tutto, ma vedasi voce “politica culturale”) la comunità tutta, non può basarsi su strutture di marketing semplicistiche. È evidente che l’ambito valoriale del Bene Culturale non si può ridurre esclusivamente a quello di un “prodotto” e che, tantomeno, le risorse umane impiegate debbano essere paragonate a “mercanti”.
Lascia che ti chiediamo: perché in questa tua protesta hai deciso di parlare proprio della nostra campagna, creata da persone che sono da poco uscite dal mondo della formazione, o ancora in formazione?
Perché credo, da quanto ho potuto vedere delle vostre iniziative, che siate riusciti a dare voce in modo molto semplice e pertanto molto efficace a tutti coloro che si trovano nelle condizioni di lavorare in condizioni pessime nei beni culturali, non settorialmente solo ad archeologi o archivisti o antropologi, ma a tutti. Coniare domande che così tanti di noi ci facciamo quotidianamente, non è una cosa da nulla, perché ci permette di chiarire che il problema condiviso è molto più vasto di quello che finora si credeva limitato a pochi settori lavorativi nella sfera dei Beni Culturali. E inoltre fornisce uno strumento individuale di protesta pacifica con risonanza mediatica sufficientemente adeguata ai tempi. Leggendo i vostri comunicati, mi sembra che stiate lavorando bene. Vi ringrazio della possibilità che mi avete offerto per chiarire il mio intervento a TourismA e auguro a voi, ma per certi versi a tutti noi, buona fortuna.
Che messaggio vuoi lanciare agli archeologi e ai professionisti dei beni culturali di tutta Italia?
Credo che sia giunto davvero il momento di passare dal “campanile” alla “rete”. Nell’esperienza con il network internazionale ho appreso un modo diverso di lavorare e di pensare. Ho verificato che, nonostante si richieda una certa elasticità mentale, una struttura di network potrebbe effettivamente essere un modo per migliorare la situazione generale. Anche esclusivamente condividendo le “buone pratiche”, un passo in avanti sarebbe possibile. Bisognerebbe però dare più importanza alla rete che al campanile, per quanto meraviglioso e frutto di grande sforzo e lavoro quest’ultimo possa essere. In sostanza, invece che soffermarsi sull’autoreferenzialità, sarebbe auspicabile osservare le strutture di connessione tra i professionisti nel sistema Beni Culturali ed avviare un vero dialogo tra tutti i soggetti e gli enti coinvolti.
Da parte di tutto il gruppo di Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali:
1 Comment
Pietro Barnabe' · 24/02/2016 at 16:11
L’ha ribloggato su pietrobarnabe.