La filiera turistica e culturale va sostenuta per evitarne il collasso: ma l’obiettivo non deve essere quello di tornare indietro.
Nel 2020 nel turismo, solo in Italia, si conteranno perdite per circa 120 miliardi di euro, secondo Confturismo e Confcommercio. Perdite che risuoneranno con violenza in tanti contesti produttivi e lavorativi, anche apparentemente non connessi alla filiera turistica, dopo decenni di crescita internazionale che sembrava inarrestabile.
Dagli Ho.Re.Ca. (Hotels, restaurants and caterings) alle agenzie, alle guide, tutti concordano che servano urgenti misure di sostegno alle imprese del settore, come richiesto tramite il “Manifesto per il turismo italiano” accompagnato da una serie di proposte in apparenza condivisibili e da uno slogan nazionalpopolare come “Salviamo l’Italia”. Un manifesto, firmato in questi giorni da migliaia di persone tramite il portale change.org, in cui traspare chiaramente la volontà di non soccombere al lockdown di tutta la filiera turistica, ma soltanto per tornare esattamente dove eravamo prima dell’emergenza CoViD-19.
L’auspicio sembra davvero mal riposto, dato che tutti concordano su come la ripartenza sarà lenta, individuale e di prossimità, legando ciascun turista a vincoli geografici, di tempo, economici e dovendo evitare grandi assembramenti sia per ragioni sanitarie che per contenere la naturale diffidenza nel prossimo che ci porteremo dietro. Tutte le restrizioni a cui siamo sottoposti in queste settimane non svaniranno di colpo e neanche sarebbe giustificabile, proprio per garantire una decrescita sostenibile dei contagi giornalieri fino a quando, ammesso che tutto fili liscio, non ci sarà più il pericolo imminente del contagio ma conviveremo ugualmente con il rischio che qualcosa di simile accada nuovamente, essendone completamente consapevoli a differenza di prima. Ma al di là di questo, la domanda sorge spontanea: perché mai dovremmo tornare indietro?
Oggi più che mai è chiaro quanto quel tipo di filiera turistica massificata e distruttiva abbia manifestato tutte le sue contraddizioni e debolezze. Tra le tante proposte che affollano il web compare quindi un po’ di tutto, da maggiori sgravi fiscali per le imprese del settore turistico e culturale, a forme di sostegno al reddito per tutti i professionisti fino ad incentivi per i cittadini a consumare prodotti culturali e turistici nei prossimi mesi, fino a follie come un fondo di investimento per la cultura e gettoni per garantire a tutti il diritto alla vacanza. Una marea confusa, in parte condivisibile e in parte meno. E nella quale proviamo a dare il nostro contributo: perché appare chiaro cosa oggi serva e cosa non serva per far ripartire il settore turistico in maniera differente, non seguendo più un modello che ha dimostrato la sua inadeguatezza.
Non serve affatto salvare i traffici crocieristici, l’outgoing internazionale verso le migliaia di esotiche destinazioni balneari, l’incoming iperconsumistico tipico dei coreani (ma non solo) che visitano Roma in giornata, come non serve a nessuno salvare le super mete del turismo balneare che ogni anno impattano in maniera esecrabile sull’ambiente e sull’economia delle mete minori.
Abbiamo favorito per decenni l’emergere di pochi poli di attrazione turistica, uniformando i servizi e concentrandovi i flussi e gli interessi. Questo ha permesso un indegno appiattimento dei territori e del loro patrimonio culturale, materiale e immateriale, ad una banale valenza estetica seguendo criteri di bellezza o fama, quando in ciascuno si sarebbe dovuto promuovere il portato culturale e naturalistico per aggregarvi intorno la comunità ed espandere il senso di cittadinanza e appartenenza su scala nazionale.
A moltissimi nelle filiere locali le esigenze sono ben chiare. Serve che l’amministrazione centrale riprenda in gestione il turismo e coordini enti locali, liberi professionisti, piccoli imprenditori, associazioni, cooperative, che attivamente si spendono nella valorizzazione e promozione del territorio. Serve che lo Stato investa per assumere più professionisti e per la valorizzazione di tutto il patrimonio culturale, periferico alle principali rotte turistiche. Serve scrivere leggi per garantire la tutela e i diritti dei lavoratori, specialmente dei liberi professionisti. Serve una gestione pianificata e organizzata che lotti attivamente contro affidamenti e gestioni poco trasparenti, valorizzando la competenza e la qualità. Serve che investa su tutte le piccole realtà locali, nella tutela dell’ambiente e nella costruzioni di filiere più corte, che non privilegino grandi soggetti come Airbnb o Booking e serve che, come nel resto d’Europa, si scrivano leggi per regolarne la concorrenza sleale e far pagare le tasse. Serve che si investa in un turismo locale e interno, e un afflusso dall’estero lento e distribuito sui territori che produca una crescita economica, sociale e culturale collettiva, di tutto il territorio nazionale.
Serve in definitiva che parole chiave come: Sostenibilità, Cultura e Comunità vengano messe in alto nello schema delle cose e si costruisca un modello turistico più equo e, soprattutto, utile a tutte e tutti.
0 Comments