Il Museo Egizio di Torino ha riaperto per poche ore alla settimana, facendo pagare la crisi ai lavoratori. Ma la dirigenza lotta per una riforma dello statuto.
Se tentate di parlare con un Torinese, spesso – specie se nato a Torino – difenderà la città, nonostante i problemi, vantandosi di molte cose, tra cui, quasi sempre, il Museo Egizio. Un modo elegante e ipnotico di nascondere la polvere sotto il tappeto, un comportamento appreso, divenuto anche ormai un sistema di difesa per la propria psiche. Difficile però che sia stato a vederlo di recente, l’Egizio, specie se non ha uno stipendio decente alle spalle: il rapporto fra il Museo e i cittadini è da ricucire, come ha finito per ammettere anche il direttore Christian Greco.
Dal 2 giugno il Museo Egizio ha riaperto, ma a mezzo servizio: solo tre giorni alla settimana, biglietto scontato, obbligo di prenotazione online. Un museo fino a pochi mesi fa descritto come un’eccellenza si trova a offrire un servizio al pubblico ridotto e insufficiente. Ma perlomeno è riuscito a non chiudere definitivamente, nonostante i principali partecipanti alla Fondazione che controlla il Museo abbiano deciso di non finanziare le perdite dovute alla chiusura da COVID-19. Il management del Museo non è riuscito a convincerli a fare la loro parte. Ma se i soci della fondazione che gestisce il Museo non stanno pagando per permettere la riapertura, chi paga?
I fantasmi del Museo Egizio
Partiamo dai presupposti: al Museo Egizio 160 persone lavorano a cottimo. Circa il triplo di quante vi lavorano regolarmente assunte. Collaborazione tramite partita IVA, compenso a seconda del numero di prestazioni lavorative portate avanti. A cottimo, appunto. Abbiamo parlato con alcuni di loro, che pur non vogliono essere menzionati per nome in questo articolo. Già prima del lockdown, ci dicevano “si potrebbe dire che ci sentiamo delle finte p.IVA. Siamo lavoratori autonomi, ma con pochissimo controllo sul mio orario e sulla suddivisione del carico di lavoro, da cui dipende direttamente la paga”.
Hanno dunque un rapporto col committente che assomiglia moltissimo (troppo) a un rapporto di lavoro dipendente, senza però le necessarie tutele derivate, ovvero mutua, ferie, premi di produzione e via discorrendo. Svolgono un ruolo essenziale per il funzionamento del museo, sono parte integrante della macchina ma vengono trattate (usiamo il femminile perché sono prevalentemente donne) come un meccanismo a parte. Spesso buoni o ottimi rapporti con i committenti, sia chiaro, ma una situazione di sfruttamento e vulnerabilità imposta o accettata per una serie infinita di ragioni, e che spesso – in particolare nel Sistema Torino – include l’obbligo di sorridere.
Oggi come stanno? Dopo tre mesi senza lavoro e stipendio, sono tornati a lavorare. Abbiamo raccolto alcune voci, che non lasciano spazio a dubbi: “ci hanno decurtato il tariffario visto che hanno ridotto il costo del biglietto. Tariffe ridotte per il pubblico, ridottissime per noi”; “io ho avuto solo due visite guidate, ovviamente pagate la metà rispetto a prima…io ne avrei tante da dire su come si sono comportati nei nostri confronti in questo periodo…mi salva il fatto che al momento sono impegnata con un altro lavoro temporaneo e quindi non devo vivere di solo museo”. Ma c’è chi non tornerà più: “io non riprenderò a lavorare perché, dovendomi pagare la babysitter, finirei per rimetterci anziché guadagnare qualcosa”. Chi ci segue da tempo lo sa già, ma lo esplicitiamo: è così facile portare avanti queste dinamiche grazie al sistema delle esternalizzazioni, un sistema perverso che deve cessare di esistere.
Eccola dunque la polvere sotto il tappeto, ecco chi paga il prezzo della riapertura: lavoratori sottopagati e sfruttati, divisi, umiliati. Un Museo che si è trovato con fondi insufficienti a garantire una riapertura degna di tal nome, con soci che non vogliono pagare, sta tagliando compensi e ore di lavoro per far fronte alla crisi. Niente di nuovo? Nella sostanza no, questo è un luogo di lavoro che assomiglia molto a tanti altri in giro per l’Italia.
Ma in questo caso c’è un passaggio in più, perchè il Museo Egizio è di fatto un modello – quello del museo pubblico statale trasformato in fondazione partecipata da banche -, nato e reso possibile dalla specifica realtà torinese ma preso a gold standard in tutta Italia. La stampa locale e nazionale, ignorando la condizione dei lavoratori, ha sempre fatto da megafono, continuando a parlare di “successo” e arrivando molto spesso a manipolare numeri, come i “record di incassi”, dovuti banalmente all’aumento del prezzo del biglietto, o il “sorpasso sugli altri musei della città” dovuto al crollo dei visitatori degli altri musei cittadini e non a una crescita dell’Egizio stesso. Questa mitologia costruita intorno al “modello Museo Egizio” rende più urgente raccontare tutto il resto.
Nei corridoi del potere
La situazione che vi abbiamo descritto non è certo rosea. Ma in questo contesto, come si è sempre fatto, si punta a costruire un consenso di ferro intorno alla Fondazione e ai suoi dirigenti, spegnendo sul nascere ogni critica. Può sembrare impossibile ma la dirigenza, mentre riduce in povertà centinaia di lavoratori e apre il museo poche ore a settimana, si sta impegnando anima e corpo per garantire una modifica dello statuto della Fondazione che garantisca a Evelina Christilin, la presidente che ha condotto il museo in queste acque, un terzo mandato.
Evelina Christilin, già presidente del comitato esecutivo per le Olimpiadi di Torino 2006, è presidente della Fondazione Museo Egizio dal 2012. Membro dell’oligarchia torinese – succedette ad Alain Elkann – è anche membro aggiuntivo dell’UEFA nel consiglio direttivo della FIFA, oltre che presidente dell’ENIT, ente nazionale per il turismo. Incarichi di rilievo, certo molto impegnativi, certo poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro, e che non si capisce come e perchè debbano coesistere, data la lunga fila di professionisti che potrebbero dirigere più che adeguatamente la Fondazione in questa complessa situazione.
Eppure da mesi il CdA della Fondazione lotta per rieleggere la stessa Christilin, che, pur non avendo nulla a che fare con il Ministero dei Beni Culturali, è stata nominata in quel CdA proprio come rappresentante del MiBACT. Vengono addotti come motivo del rinnovo, che richiederebbe una riforma dello statuto della fondazione, gli “eccellenti risultati”, eppure, come abbiamo già spiegato, il museo alla prima difficoltà si è trovato senza fondi e sta massacrando i lavoratori. Il Comune di Torino a guida Movimento 5 Stelle si è opposto, ma la regione Piemonte guidata dal centrodestra, insieme ai soci privati, ha votato a favore della riforma dello statuto, ed ecco che la presidente della Fondazione Museo Egizio potrà rimanere in carica ancora e forse, chissà, a vita. Un ottimo messaggio di meritocrazia e partecipazione da dare a migliaia e migliaia di manager culturali.
Le ragioni che spiegano questa voglia disperata di rinnovo sono molteplici. La più importante è però la gestione proprietaria che i ceti dirigenti cittadini hanno del Museo. A cominciare dagli anni 2000 enti bancari come Intesa Sanpaolo e Cassa di Risparmio di Torino sono entrati a gamba tesa nella gestione della cultura cittadina.
Sono riusciti soprattutto ad accreditarsi, anche attraverso operazioni poi rivelatesi fallimentari come l’acquisto per quasi 3 milioni di euro del falso Papiro di Artemidoro, come soci della nuovissima Fondazione creata per gestire il Museo Egizio (gli altri soci sono Comune di Torino, Regione Piemonte e MiBACT), probabilmente consapevoli dell’importanza dei Musei se s’intende costruire un nuovo tessuto economico basato sul turismo. Nell’operazione erano coinvolti alcuni fra i più importanti e potenti nomi dell’oligarchia cittadina: non a caso chi ha ricoperto la carica di presidente della Fondazione non sono manager della cultura, bensì esponenti di primo piano di quel gruppo. Alain Elkann per primo e Evelina Christillin poi, il primo membro della famiglia Agnelli la seconda vicinissima alla stessa. Non è stata l’unica Fondazione per la gestione di musei creata in città: la maggior parte dei più importanti musei torinesi è in realtà gestita da Fondazioni varie, salvo i musei statali dell’ex Polo.
Un controllo che vuole sempre qualcosa in cambio, e che nonostante ciò non si è rivelato utile a sanare i problemi finanziari proprio di istituzioni come il nostro Museo Egizio: di fronte al duro colpo inferto in questi mesi di COVID la dirigenza della fondazione ha immediatamente chiesto aiuto allo Stato. In un momento di grande, strutturale cambiamento e difficoltà, ecco la necessità di non mettere in discussione nulla, anche a costo di forzare uno statuto.
Quelle ombre che non vogliamo vedere
Il Museo Egizio di Torino in poche settimane ha dimostrato a tutti ciò che era diventato. Un luogo di potere lottizzato dalle banche e dalla politica, sostenuto dallo Stato. Quando si parla di Museo Egizio come modello, dobbiamo sempre tenere presente due cose, indissolubili, e che rendono possibile l’esistenza del Museo stesso in questa configurazione attuale: i precari, a cottimo, che mandano avanti parti fondamentali dell’offerta dell’istituzione, e il sistema che sta alle spalle del Museo, che lo sostiene e lo usa ancora oggi per propagandare un modello di crescita fallimentare, che in vent’anni non è riuscito a risollevare le sorti del capoluogo sabaudo.
Noi a Torino ci libereremmo molto volentieri di chi ci ha trascinato in questa spirale di disoccupazione, povertà e desolazione, mascherata dietro un luccicante centro cittadino e sotto due grattacieli e una metropolitana. Come professionisti della Cultura dobbiamo chiederci: siamo disposti ad accettare un modello simile per uno dei più importanti musei statali italiani? E al Comune di Torino, al Ministero e alla Regione Piemonte, che partecipano alla fondazione, sta bene ciò che sta accadendo a quei lavoratori e quelle famiglie?
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