Con un bando mal scritto, la Regione Sardegna ha destinato all’abbandono e al crollo quattro siti archeologici dopo decenni di investimenti. Ma cresce la mobilitazione.
Possibile gettare nell’abbandono quattro siti archeologici, buttare all’aria 18 anni di investimenti, far perdere il lavoro a quattro persone, danneggiare il turismo e scontentare tutti gli amministratori locali in un solo colpo? In Italia può succedere anche questo, mentre il dibattito nazionale sulla stampa nazionale si concentra su poche statue innalzate pochi decenni fa. Questa è una storia molto sarda e molto italiana.
Nel 2001 è stato istituito, con decreto firmato da tre diversi ministri, il Parco Geominerario, Storico e Ambientale della Sardegna. Un modo per preservare la storia mineraria dell’isola, per rilanciare un territorio, quello del Sulcis, attanagliato dalle difficoltà economiche e sociali, e per riconvertire diversi posti di lavoro data la crisi dell’industria del carbone. Progetto ambizioso, che comprendeva, appunto, anche storia e ambiente, fin dall’inizio. Non ci soffermeremo in questa sede sulle tante vicissitudini, non sempre positive, che hanno caratterizzato questo Parco, ma su una vicenda difficilmente comprensibile esplosa in queste settimane, che colpisce quattro siti archeologici.
Succede semplicemente questo: dopo 18 anni che la Regione Sardegna ha investito nella manutenzione e gestione dei siti archeologici del Nuraghe Sirai, del Nuraghe Seruci, di Sant’Antioco, e di Pani Loriga, nel 2019 ha pensato bene di appaltare la gestione l’intero Parco Geominerario con un solo bando, rigorosamente internazionale, che ha dimenticato i quattro siti archeologici, lasciandoli senza manutenzione e senza finanziamenti. I sindaci dei comuni interessati, appena uscito il bando, avevano chiesto, insieme alla Soprintendenza, che i siti archeologici venissero re-integrati: l’assessore regionale al lavoro aveva detto che non si poteva fare, ma aveva anche assicurato che ci sarebbe stato uno specifico finanziamento dedicato.
Nulla del genere si è visto fino a oggi. E così, dal 1 agosto – doveva essere 1 luglio, ma v’è stata una proroga -, i circa 50 lavoratori dei cantieri archeologici sulcitani, formati con 2 corsi di ri-qualificazione specifici, approvati e pagati dalla stessa Regione Sardegna nel 2010 e nel 2014, e soprattutto con quasi vent’anni di esperienza specifica, “verranno assunti da un nuovo gestore e spostati dalla virtuosa filiera dell’archeologia a qualche intervento di bonifica di qualche pozzo o galleria mineraria dismessa, in qualche sito lontano dal loro Comune di residenza, mentre gli archeologi che dirigono gli scavi dei cantieri sulcitani verranno in parte licenziati (gli ultimi “reclutati” in termini di tempo) e in parte destinati a mansioni per ora non definibili” ha spiegato a Mi Riconosci Carla Perra, direttrice degli scavi del Nuraghe Sirai. E i siti, in abbandono, inizieranno a cedere e crollare, pezzo per pezzo.
Inutile soffermarsi sull’ottusità della decisione, sullo spreco di risorse che questo spostamento di lavoratori comporta e su quanto questo bando per il Parco Geominerario senza archeologia ricordi questa idea dei “brand” che tanto piacciono a chi gestisce il Patrimonio culturale di questi tempi. Ma raccontare la storia mineraria del Sulcis senza l’archeologia è un vero e proprio falso storico. “La storia delle attività minerarie coincide con l’archeologia di questo territorio, perché il Sulcis-Iglesiente è sempre stato il distretto minerario capace di coagulare intorno a sé gli insediamenti umani” ci ha spiegato ancora la dottoressa Perra “Dalle attività della fusione del ferro a Sulky (Sant’Antioco, VIII sec. a.C.), fino alla straordinaria scoperta della più antica officina del vetro dell’isola (VII sec. a. C.) nella fortezza del Nuraghe Sirai, che utilizzava la quarzite cavata dai vicini rilievi del Monte Leone, tanto per fare degli esempi, è l’archeologia che racconta la storia mineraria del territorio, a partire dai suoi inizi. Interrompere questo lavoro, questa ricerca che tanto sta dando alla Sardegna e al territorio, che senso ha?”. Dobbiamo sottolineare che questo è un ragionamento condiviso dai sindaci del territorio, che si sono opposti e si oppongono alla scelta di abbandonare quei siti archeologici, che hanno un valore identitario e storico ben percepibile e percepito dalla popolazione.
Al grido di “se mi abbandoni, crollo”, archeologi e cittadini stanno chiedendo risposte. Una petizione online, che vi invitiamo a firmare, sta ottenendo migliaia di firme, c’è l’interessamento delle TV locali e dei giornali. Poche ore prima che venisse pubblicato questo articolo, la mobilitazione ha dato i suoi primi effetti, ottenendo una proroga della concessione fino al 1 agosto. Proroga che da sola non cambia nulla, ma che serve a prendere tempo: sarà utilizzato per risolvere i guai che sono stati creati?
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