La chiusura indiscriminata degli spazi culturali ha costretto le istituzioni a inventare soluzioni innovative per non sottrarsi alla loro missione sociale. Il caso di musei e biblioteche.
In poche settimane ogni singolo spazio culturale di questo Paese (con l’eccezione delle gallerie d’arte private e delle librerie) è stato chiuso al pubblico: teatri, cinema, musei, biblioteche, archivi e circoli. Una chiusura affrettata portata avanti senza distinzioni, che ha per esempio vietato gli “spettacoli con pubblico” anche all’aperto, mentre le piazze sono ugualmente piene, o ha vietato il prestito di libri mentre è lecito sfogliarli in libreria. Una chiusura che ha colpito anche luoghi in cui, di assembramenti di persone, non si è mai vista l’ombra.
Ma tra i vuoti e le contraddizioni c’è chi prova a rialzare la testa, prova a non smettere di offrire servizi fondamentali per la città e la comunità. I primi a reagire sono stati in Consorzi Universitari, che con una evidente forzatura, decisamente legittima data l’arbitrarietà del provvedimento governativo, sono riusciti a far equiparare biblioteche e musei universitari ai laboratori, e a renderli quindi accessibili a tutti gli studenti, ricercatori, docenti: una mossa necessaria, ma che comunque crea un solco profondo tra chi è “dentro” l’istituto e chi non ha un’affiliazione, vuoi perché laureatosi solo pochi mesi prima oppure perché è uno dei tanti precari della ricerca che si barcamena tra più lavori. Ma è fuori dagli istituti universitari e di ricerca che si combatte la battaglia più dura, quella per consentire a questi spazi di non sottrarsi alla loro missione sociale, e impedire che la chiusura forzata tolga a migliaia di cittadini, per mesi, l’accesso alla lettura e alla cultura.
Sono stati forse i bibliotecari del Polesine, nel sud del Veneto, a esprimere con più chiarezza il problema. “Se la ratio su cui si basa il decreto è quella di vietare gli assembramenti e fare rimanere le persone nelle proprie abitazioni” scrivono in una lettera inviata al Governo e ai giornali “perché privarle di quel potente strumento di conoscenza che è il libro […] e arricchire la loro permanenza a casa?”. Nella lettera provano a illustrare anche alternative alla catastrofe che rischia di abbattersi sulle biblioteche dello Stivale e sulle comunità che a queste fanno riferimento. Il prestito in biblioteca – notano – non sembra molto diverso dai servizi “da asporto” nei ristoranti e nei bar, tranne per il fatto che le biblioteche sono servizi essenziali anche di fronte alla legge. Il cuore del ragionamento di queste bibliotecarie e bibliotecari è chiaro: le biblioteche sono servizi essenziali non solo per chi fa ricerca e chi studia, ma anche per i cittadini e per chi ha in questi luoghi una parte fondamentale della propria vita.
Le perplessità e la rabbia generate dall’ultimo DPCM non sembrano fermare un settore già abituato a ricevere più ostacoli che aiuti da parte dei governi. Se le bibliotecarie e i bibliotecari polesani hanno voluto redigere una lettera a riguardo, tanti altri hanno continuato a erogare il servizio di prestito “da asporto”: solo per parlare dei comunicati stampa che abbiamo trovato, le biblioteche di Maranello, di Ascoli, di Fucecchio, hanno già messo in campo misure simili, rafforzando proprio il prestito su prenotazione o attivando il prestito “a domicilio”. La Regione Toscana ha raccomandato a tutte le biblioteche, tra l’altro, di attivare “forme alternative di servizio all’utenza: quali il prestito “take-away” su prenotazione, il prestito a domicilio, il prestito decentrato in punti di interesse per il territorio”. Gli appelli e le petizioni per garantire il diritto alla lettura a tutte e tutti non si contano. E certo ci stiamo perdendo tante altre iniziative che spuntano sui territori come funghi. Tutto questo, va sottolineato, nonostante il Ministero e la Direzione Generale abbiamo fatto venir meno ogni tipo di linea guida, chiudendosi in un colpevole silenzio a fronte di tanto fermento e richieste di precisazioni e distinzioni.
Non solo biblioteche, sia chiaro, stanno inventando strategie dal basso. I musei stanno nuovamente tentando di organizzare le proprie attività con visite virtuali, approfondimenti web e dirette social, per cercare di mantenere “vivo” il rapporto con i lori visitatori. Ma già a marzo avevamo segnalato quanto queste iniziative, senza adeguata pianificazione e personale preparato, non hanno alcuna possibilità di attrarre realmente il pubblico. In tanti, spesso i piccoli musei, stanno pensando ad altro, in particolare a portare il Museo “fuori dal Museo”, secondo quanto aveva già sperimentato negli anni ‘60 Paola Della Pergola direttrice della Galleria Borghese. E sono spesso i piccoli musei a essere in prima linea. Merita di essere segnalato il progetto Delivery Museum, proposto dai Musei Civici di Reggio Emilia, che in un momento di impossibilità di organizzare gite scolastiche avevano pensato bene di portare il museo a scuola. Così il museo è uscito dai propri confini e per una settimana si è trasferito all’interno della scuola con un’installazione di reperti archeologici, minerali, fossili, animali, opere d’arte, materiali originali o riproduzioni. Sono stati portati nelle classi “oggetti strategici dal punto di vista dei significati e delle narrazioni, capaci di innescare curiosità e creatività” sui quali gli educatori museali hanno ideato laboratori, per cercare di offrire ai piccoli pubblici nuovi modi e occasioni educative, riuscendo ad adattarsi alla contingenza.
Ora che anche le scuole in larga parte sono chiuse, anche progetti simili sono bloccati. Eppure soluzioni per permettere alla cultura di vivere fuori dagli edifici chiusi non solo esistono, ma sono assolutamente in linea con la più moderna museologia e biblioteconomia. Scegliere di portare avanti progetti di questo tipo significherebbe mantenere vivi i rapporti sociali, tenerli attivi, in presenza, seppur con le dovute precauzioni e a seconda della situazione sanitaria territoriale, e così riuscire a superare abilmente le distanze che l’online impone. Distanze anche materiali, dal momento che non tutti hanno un collegamento a internet.
Mettere in discussione i confini dell’istituzione culturale, rompere l’isolamento, per porsi in cammino verso l’altro è un gesto dirompente e di grande apertura. Il progetto Il Museo fuori dal Museo della Galleria Borghese, risalente a oltre 50 anni fa ma attualissimo, già metteva in dialogo l’istituzione museale con i quartieri periferici di Roma, ovvero con quelle fasce di popolazione che avevano maggiori difficoltà a visitare i musei. Attraverso incontri e mostre specifiche realizzate nelle periferie il museo entrava, così, in un rapporto diretto con il territorio riuscendo a suscitare un forte interesse, più che un momento di distrazione, o un incontro superficiale e generico con le opere, per cercare di affrontare problemi nuovi e avviare nei nuovi visitatori, un primo processo di apprendimento tramite l’arte. E, va detto, scelte simili assicurerebbero anche una possibilità lavorativa ai tanti educatori museali, bibliotecari, archivisti, spesso precari, che si trovano da una parte a non poter offrire un servizio alla cittadinanza, e dall’altra privi di reddito e di sostegno economico.
Forse il Ministero e il Governo riusciranno a vedere la lungimiranza di queste iniziative, correggendo il tiro e cominciando a ragionare sul futuro di questi luoghi. Paola Della Pergola diceva che “il Maometto che va dalla montagna non si limita a questa iniziativa, ma compie un’azione stimolatrice, poiché a sua volta la montagna, si muova verso Maometto, cioè il museo.” Questo è il momento di far arrivare la cultura direttamente nelle case dei cittadini, nei quartieri, diffusamente, per evitare spostamenti e assembramenti. Online, sì, ma non solo, non basta. A noi queste vere e proprie reazioni non possono che dare speranza, per arginare i danni al nostro tessuto sociale aggravati dagli ultimi DPCM. Sarebbe bello che la dirigenza ministeriale ne prendesse atto, aiutando a costruire soluzioni e non solo divieti.
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