I divulgatori televisivi e i personaggi pubblici di spicco nel settore culturale sono quasi esclusivamente uomini. Perché la divulgazione è ancora prerogativa maschile?
In vari momenti del 2020 si è fatta notare, ancora, la predominanza di uomini in comitati tecnici e scientifici costituiti per la gestione della pandemia, in trasmissioni-dibattito a tema economico, sanitario, politico, in momenti pubblici importanti nella definizione del futuro del Paese. Non fa eccezione il settore culturale: nonostante la presenza femminile maggioritaria a tutti i livelli, anche un osservatore poco esperto può notare che in eventi, trasmissioni, articoli destinati al grande pubblico, chi conduce, parla, firma è molto, troppo, spesso uomo.
Come Mi riconosci? ci eravamo già occupate di un esempio eclatante di convegno con solo uomini come relatori, o manel, in ambito culturale. Un festival sul tema della bellezza, concetto considerato nel caso di questo evento veronese solo uno strumento ad uso e consumo maschile. Non è un caso isolato, e non possiamo non citare a riguardo la campagna #boycottmanels, lanciata dalla presidente di ConfCultura Patrizia Asproni: un’esortazione a non ingrossare le fila del pubblico di questi eventi, e, per i relatori, a non parteciparvi se condotti da soli uomini. Perché è così frequente sentire voci maschili che spiegano, danno pareri, rassicurano in merito ai problemi della realtà che ci circonda, nel coro dell’informazione e della divulgazione mainstream o nelle frequenti occasioni di dibattito pubblico?
Da un lato si preferiscono i titoli o i ruoli ricoperti alla qualità dei contenuti: si contattano i soliti noti che garantiscono richiamo mediatico, e questi sono sovente ancora uomini. Dall’altro lato si escludono troppo spesso, più o meno inconsciamente, relatrici in base al loro genere, per un processo semiautomatico legato alla narrazione della realtà cui siamo abituate.
Ad esempio, a proposito di scoperte scientifiche fatte da una donna, quante volte ci è capitato di essere testimoni di narrazioni che spostano il focus sulla sfera personale della ricercatrice con domande come “chi fa la lavatrice in casa?”, “c’è spazio per la famiglia?”, o la chiamano confidenzialmente per nome senza usare il titolo professionale? Quante narrazioni evidenziano aspetto o carattere prima della professionalità, sminuendo il ruolo ricoperto o, ancora, raccontando di donne “brave come uomini”?
Restringendo l’analisi all’ambito culturale, dove pur la stragrande maggioranza delle operatrici sono donne, quali sono i primi nomi che vi vengono in mente se pensate a divulgatori italiani? Quanti appartengono al genere maschile? Praticamente tutti. Dai più noti Piero e Alberto Angela, passando per Roberto Giacobbo, il compianto Philippe Daverio, ma anche Massimo Osanna, “lanciato” come divulgatore dal recente documentario su Pompei, solo per citarne alcuni. Lo stesso vale per altri personaggi televisivi di spicco, come Vittorio Sgarbi. La lista potrebbe continuare, e vi invitiamo a pensare invece a quante colleghe altrettanto competenti non godano della stessa visibilità.
Per secoli si sono tramandati, in modo indiscusso ed autoreferenziale, modelli e saperi declinati e destinati esclusivamente al maschile, rispecchiati dalla lingua: basti pensare al termine “uomo” che indica sia un singolo maschio sia, con valenza universale, tutto il genere umano, inglobando femminile e altre soggettività. In questo quadro il divulgatore, depositario del sapere, è quindi, storicamente e naturalmente, un uomo, carismatico, affabile, autorevole, con buona dialettica e capacità di affascinare. In quanto modello di riferimento e ispirazione, diviene esso stesso uno strumento – inconsciamente e indirettamente – di conservazione delle gerarchie costituite, delle discriminazioni e della divisione dei generi, dando la fallace percezione al pubblico di ricoprire quel ruolo solo in virtù delle proprie abilità e competenze. La divulgazione diviene così affermazione del patriarcato pubblico: rappresentazione fedele dell’asimmetria di genere, contrappone il soggetto maschile all’oggetto femminile o femminilizzato, proponendo una lettura binaria della società. I contenuti stessi tendono a generare l’illusione di un sapere neutro, con una prospettiva univoca ma in realtà eterodiretta, che oggi nel dibattito pubblico mainstream sono solo in pochissimi a mettere in discussione: si veda ad esempio la narrazione storica, perpetrata da un soggetto “dominante” che ha imposto il proprio punto di vista sul mondo narrando solo un certo genere, certe classi sociali, aree geografiche e facendo passare in sordina storie, voci, contenuti a lui subordinati.
Insomma, la comunicazione e la cultura sono ancora ottimi strumenti di riproduzione del “dominio maschile”. Ma comunicazione, cultura e quindi divulgazione possono anche essere strumenti per ribaltare il sistema vigente e proporre un modello altro, inclusivo, che non lasci nessuno indietro; che contribuisca, attraverso la diversità dei punti di vista e dei portatori di saperi, alla risoluzione di problemi che una società pensata al maschile non è consapevole di avere; che smantelli le disuguaglianze su cui questa si regge: le discriminazioni sono, purtroppo, all’ordine del giorno, e l’ambito culturale non è esente, come denunciato dalla nostra inchiesta nel 2019.
Non si tratta di quote rosa e percentuali, non si tratta di casi straordinari e dimenticanze: è un problema ben più radicato e complesso, alimentato anche dalla deresponsabilizzazione di chi lo riconosce ma partecipa lo stesso a questo sistema, finendo per avallarlo. Si tratta di scegliere e di prendere posizione, quindi anche di rinunciare ad intervenire ad iniziative escludenti verso il non maschile; si tratta di proporre sempre più modelli alternativi anche nei palinsesti, affinché le future generazioni possano non solo trarne ispirazione indipendentemente dal genere, ma possano soprattutto comprendere nel profondo le contraddizioni esistenti e contribuire progressivamente alla sovversione della predominanza maschile per una società più giusta e inclusiva.
0 Comments