Il comunicato stampa MiBACT del 25 gennaio usa un linguaggio discografico o da bar sport per commentare il numero di visitatori di 30 Musei italiani, mettendoli in classifica. Un dato parziale e fuorviante. Ma questo nasconde le reali criticità della gestione dei nostri Musei, alcune delle quali emergono dalla lettura degli stessi dati diffusi. Il nostro commento.
“Battono la Serie A”, “boom”, “torna nella top 30 dopo venticinque anni”, “le superstar”. Poteva essere il comunicato stampa di una casa discografica che deve farsi conoscere, o il commento a caldo al termine di una corsa ciclistica emozionante, invece era il comunicato stampa con cui il Ministero dei Beni Culturali commentava il numero dei visitatori nei Musei statali per il 2019, accompagnato e anzi lanciato da una grafica volutamente in stile MTV.
Viviamo in un momento storico il cui la comunicazione delle istituzioni è sempre più bassa, nello stile e nel messaggio, perciò vorremmo in queste righe concentrarci proprio sul messaggio: lo stile non è il problema più grosso. Un messaggio di competizione, tutt’altro che sana, come se il successo di alcuni musei fosse meritato a scapito dell’insuccesso degli altri, con gli ultimi in classifica che apparivano prossimo a retrocedere in serie B. Un messaggio fuorviante. Ma in base a quei dati, Dario Franceschini ha commentato: “A qualche anno dalla riforma dei musei i risultati straordinari si vedono sempre di più grazie al lavoro dei direttori e di tutto il personale. Più incassi vogliono dire più risorse per tutela e ricerca, servizi museali. Andremo avanti sul percorso dell’innovazione”. Non è solo una dichiarazione terribilmente superficiale e propagandistica e non corroborata dai dati: il problema è che anche i dati, del tutto parziali, presentati nel comunicato, la smentiscono.
I visitatori dei Musei statali italiani crescono da decenni grazie alla crescita internazionale del Turismo. Crescita di cui l’Italia approfitta molto meno degli altri (è notizia di venerdì sera che per la prima volta, nel 2019, anche la Germania ha superato l’Italia per numero di pernottamenti). Per cui il lavoro dei direttori avrà di certo contribuito in alcuni casi, ma che la Riforma “funzioni” è tutto da dimostrare. E non solo perché, come ormai evidenziato da ogni parte, i Musei autonomi crescano a scapito di altri. No, anche per i Musei autonomi stessi i numeri meriterebbero adeguata riflessione: a Roma ad esempio, come ben evidenziato da altri, tutti i Musei autonomi perdono visitatori, mentre crescono Castel Sant’Angelo e Terme di Caracalla, che nulla hanno a che fare con la Riforma Franceschini; cala poi Villa Adriana a Tivoli, cala la Reggia di Caserta, calano il Museo del Bargello e la Galleria dell’Accademia a Firenze. E tra i musei a gestione privata, il Museo Egizio di Torino, celebrato nel comunicato stampa, “sale in classifica” solo perché la Venaria Reale vede un crollo dei visitatori. Dobbiamo supporre quindi che i direttori di questi istituti abbiano lavorato male? Chiaramente no, non è così semplice: le spiegazioni sono complesse e articolate. Ma al Ministero dovrebbero trovarle. E poi, diciamolo: veder crescere i visitatori non è sempre un vanto se, come nel caso di Pompei, tutti questi visitatori si concentrano solo e soltanto in uno sito ignorando gli altri.Insomma, questa classifica non dice quasi nulla, anche perchè è grossolana: comprende luoghi statali gestiti da privati (quindi con bigliettazione completamente diversa) mentre sono esclusi luoghi importantissimi come il Palazzo Ducale di Venezia, perché civico, o il Pantheon perchè ad accesso libero. E ancora, si sono diffusi i numeri dei primi 30 musei come numero di visitatori ma non gli altri, impedendo ogni analisi; non si sono distinti visitatori italiani e stranieri, paganti e non paganti. La classifica non serve a nulla, ma può oscurare i problemi reali. E lo sta facendo.
I numeri sì, potrebbero dire qualcosa, se contestualizzati: contestualizzati in un Paese in cui il 64% delle persone non va al Museo, e in cui tutti i Musei che staccano più biglietti vedono gran parte degli introiti finire in tasca a concessionari (tutti del Centro-Nord, peraltro). Non c’è nulla da esultare davanti a una classifica in cui nessuno dei 30 musei più visitati sorge più a Sud di Napoli. Non serve a niente: bisogna analizzare i dati nel loro complesso, come fa ogni anno con fatica l’ISTAT, che dipinge un Paese in cui finanziamenti pubblici, finanziamenti privati, risorse umane e visitatori si concentrano in pochissimi grandi Musei. Possiamo gioire, sì, della crescita della Galleria Nazionale delle Marche o del Castello di Miramare a Trieste, ma ci si dovrà chiedere perché, nell’anno di Matera Capitale Europea della Cultura (decine di milioni di euro investiti), questi Musei da soli contano più visitatori dell’intero polo museale della Basilicata, bisognerà chiedersi perché i Musei statali a pochi chilometri da Venezia non riescono a entrare nei flussi turistici, perché ci sono Musei statali chiusi da mesi e altri che contano pochissime migliaia di turisti ogni anno. Su questi ultimi è da poco crollata la scure dell’ultima riforma Franceschini, che scinderà i Musei più importanti d’Abruzzo, di Sardegna e di Basilicata dagli altri del territorio. Il MiBACT ha fatto un’analisi prima di imporre questa ulteriore competizione? A giudicare dai comunicati stampa, sembra proprio di no. Fermiamoci, respiriamo, studiamo: i numeri non dicono tutto, ma in ogni caso dicono che stiamo perdendo un’enorme occasione per far crescere il territorio.
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