Si moltiplicano, anche su suolo italiano, gli appelli a cancellare la cultura russa da parte dell’establishment ucraino. Le nostre istituzioni stanno a guardare.
Nel presentare la sua opera esposta nel padiglione ucraino, all’inaugurazione della Biennale di Venezia del 23 aprile scorso, l’artista Pavlo Makov aveva dichiarato: «Dobbiamo fare il meglio per rappresentare la cultura, la dignità e la storia dell’Ucraina. L’arte, la musica, sono stati strumenti di potere per la Russia». Parole forti, ma tutto sommato condivisibili. L’opera e l’artista sono state celebrate ottenendo grande spazio sui media e ulteriori inviti.
Ma quattro giorni dopo, il 27 aprile, per le strade di Venezia è apparsa una serie inquietante di manifesti, in italiano e in inglese, che riportano tutti lo stesso messaggio declinato in vario modo: cancellare la Russia e la sua cultura. «Non c’è cultura russa senza carri armati russi»; «Non c’è la Russia, solo la stessa maledetta Moscovia»; «I loro libri, l’arte, la musica, il balletto, l’intera loro “cultura” sono solo un mezzo per raggiungere un fine. Smetti di affascinare la loro cultura: ogni Dostoevskij è seguito da una pioggia di missili»; «Tutta la “grande cultura russa” è sempre stata un fedele cantastorie del loro sanguinoso impero, e l’impero li ha sempre usati per vantarsi della propria “grandezza”. È ora di cancellare entrambi». I manifesti in questione si riallacciano a un sito web, dal titolo alquanto esplicativo, creato lo stesso giorno e dove è possibile leggere in inglese, italiano, francese e tedesco dichiarazioni come: «Aiutaci a combattere l’Impero Russo, annullare la sua cultura coloniale. Trattieni qualsiasi finanziamento, supporto o, persino, l’attenzione che una volta hai fornito ad artisti, scrittori o musicisti russi. Non dovrebbe esserci spazio per le loro mostre, pubblicazioni o concerti. Non si dovrebbe menzionare sulla stampa fintanto che i soldati russi stanno cancellando la nostra eredità culturale […]. Può una cultura essere grande se i suoi membri uccidono altre culture?».
Quello che poteva sembrare il delirio di qualche invasato anonimo (simile ad altri registrati in questi anni nei confronti di esponenti del passato europeo, e che hanno portato l’establishment a coniare il termine, del tutto fuorviante, di cancel culture) in questo caso è invece una campagna voluta da artisti ucraini di rilievo a partire dallo stesso Pavlo Makov, insieme alla galleria d’arte ucraina che lo presenta in Biennale; dello studio di design che ne ha realizzato il manifesto per l’esposizione veneziana e dell’agenzia di web application and consulting, che vanta fra i suoi clienti anche Makov. Una campagna volta alla cancellazione culturale della Russia.
La notizia in sé è già allarmante, ma è necessario ricordare che la spinta del governo ucraino a cancellare la cultura russa non si arresta qui. Infatti, abbiamo già ricordato la scelta di alcuni teatri italiani di cancellare “Il lago dei cigni” di Čajkovskij per tutelare i ballerini ucraini, che altrimenti sarebbero stati perseguitati in patria. Inoltre, nelle ultime settimane, si sono susseguite le dichiarazioni di influencer ucraini sull’importanza della decolonizzazione e della cancellazione culturale della Russia. Appelli simili, firmati da artisti ucraini e dal ministro della cultura ucraino Oleksandr Tkachenko, ribadiscono gli stessi concetti: non invitare russi a festival quali Cannes, Venezia, Verona, Avignone. Idem vale per le fiere di libri, per i teatri e per qualsiasi evento culturale. Adesso, però, è innegabile che le richieste siano state portate decisamente ad un altro livello: non solo non invitare russi, ma anche cancellare la cultura russa in ogni sua forma.
“La doverosa indignazione e la condanna non possono certo riguardare la cultura [russa], grandi spiriti del passato e le loro opere, che tanto hanno dato alla civiltà del mondo intero. Sarebbe grave e controproducente per la nostra Italia e la nostra Europa” ha detto il 2 maggio, alla cerimonia di consegna dei David di Donatello, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Parole che fanno seguito a quelle del Ministro della Cultura, Dario Franceschini: «quando c’è una presenza del governo russo la rifiutiamo, ma da qui ad arrivare a non ospitare o rappresentare opere di artisti russi… non c’entra, bisogna mantenere un equilibrio». C’è da chiedersi, a questo punto, se le nostre istituzioni abbiano idea di cosa sta accadendo negli spazi, negli enti, negli istituti che lo Stato italiano finanzia. Questo tipo di rivendicazioni nazionaliste, che invocano ad una guerra e conseguentemente anche ad un annientamento culturale e totale dell’una o dell’altra parte, non si fermano con condanne a parole, ma con atti pratici.
Nonostante la Biennale di Venezia non sia (direttamente) implicata nella diffusione dei manifesti e della relativa campagna, non prendere le distanze da artisti e gallerie ivi ospitati non può che portare uno schieramento di fatto. C’è una certa differenza tra dare valore alla cultura di un popolo e mettere a disposizione gli spazi culturali del territorio italiano per simili escalation d’odio. E nel momento in cui si decide di non invitare (per quanto tempo?) cittadini russi alle manifestazioni, di complicarne la vita economica e sociale, a prescindere dal loro comportamento individuale, forse si dovrebbe fare tutto il possibile per presentare queste misure come misure d’emergenza e non di cancellazione.
Il Ministero della Cultura, la Biennale, tutte le istituzioni culturali italiane hanno il dovere di uscire dalla retorica e prendere posizione, ribadendo la centralità del dibattito, stimolare riflessioni che vedano entrambe le parti coinvolte, perché, là dove i tavoli delle trattative militari falliscono, la cultura potrebbe essere una chiave di volta, se solo lo si volesse. In caso contrario, sarete per sempre coinvolti.
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