È il tema politico del momento: le partite IVA. Aiutiamo le partite IVA. Difendiamo le partite IVA. La politica lo dice da sempre. Ma di cosa hanno davvero bisogno, le partite IVA? Qualcuno glielo ha mai chiesto? A quanto pare, almeno nel settore culturale, il modo migliore per aiutare le partite IVA è permettergli di chiudere la partita IVA ed essere assunti con un regolare contratto per dipendenti. Questo è il nuovo dato che emerge dalla nostra inchiesta “Cultura, contratti e condizioni di lavoro”, che sarà presentata alla Camera dei Deputati, in conferenza stampa, il 30 ottobre.
Vi avevamo già preannunciato che la paga oraria media di un lavoratore del settore è meno di 8 euro l’ora, e che moltissimi guadagnano meno di 10 mila euro l’anno. Bene, tra questi ci sono, ovviamente, anche le partite IVA: tra le persone che hanno risposto al nostro questionario (1546 in tutto), 373 dichiarano di aver aperto una partita IVA. A questi abbiamo posto la domanda, secca: “Se sei un/una professionista con partita IVA, si tratta di una libera scelta o di una condizione obbligata per poter lavorare?”. Nel 78% dei casi, come accennato nel titolo, la risposta è “Condizione obbligata”. Nessun desiderio disperato di essere “imprenditori di sé stessi”: solo tanta voglia di lavorare e portare a casa la pagnotta.
Non ci stupisce, ma finalmente esiste un dato a riguardo, che ci conferma quello che era un segreto di pulcinella: nella stragrande maggioranza dei casi, la libera professione nel settore culturale è di fatto una dipendenza ultraprecaria, imposta dal datore di lavoro come condizione unica per poter lavorare. Sia chiaro che in altri casi (il 22%, nel nostro campione) tanti di noi lavorano con partita IVA per una scelta, più o meno libera, e lavorano bene. Ma si tratta di eccezioni. In un settore in cui il principale datore di lavoro è la Pubblica Amministrazione, in effetti, viene meno, o meglio non è mai esistito, il principio che giustifica l’esistenza della libera professione: ovvero la possibilità di avere diversi clienti ed interlocutori, potendo alzare il prezzo delle proprie prestazioni a seconda della richiesta. Certo, per chi lavora con i privati, ad esempio con il turismo, o con i galleristi, a volte può funzionare. A volte infatti, come dimostrano anche i nostri risultati, si tratta di una scelta felice. Ma per chi lavoro nelle biblioteche, nei musei, negli scavi archeologici, negli archivi… come si può alzare il prezzo delle proprie prestazioni? Soprattutto se una legge dello Stato permette di far svolgere le stesse prestazioni a personale volontario gratis?
Non si può alzare il prezzo. O, se si riesce ad alzare, si può alzare poco, e con tanta fatica.
Tra i tanti quesiti che porremo alla politica e alle istituzioni con la nostra inchiesta “Cultura, contratti e condizioni di lavoro”, ci sarà dunque anche il seguente: ha ancora senso, dopo trent’anni di sperimentazione, continuare con un sistema in cui la maggior parte dei lavoratori del settore culturale sono costretti a lavorare esternalizzati e pagati per prestazioni occasionali che spesso occasionali non sono affatto? Ha ancora senso, dato che la maggior parte di essi finisce per guadagnare meno di 10 mila euro l’anno?
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