La notizia è uscita ieri su Il Fatto Quotidiano, ma ci teniamo a ribadirla a voi che ci seguite, e al Ministero, e alla dirigenza di Federculture.

Secondo i dati della nostra inchiesta “Cultura, contratti e condizioni di lavoro”, che saranno presentati alla Camera dei Deputati il 30 ottobre, sui 1546 intervistati che hanno risposto al nostro questionario, solo il 53% è impiegato con un CCNL (contratto collettivo nazionale). Tanti sono i co.co.pro, le ritenute d’acconto, i lavoratori (che si ritengono tali!) impiegati come volontari del Servizio Civile, tirocinanti, o volontari tout-court: il 25% del totale dichiara in effetti di non avere alcun contratto.

Ma tra i contratti nazionali, qual è il più applicato? Chi è del settore già conosce la risposta, la può intuire. Tutti gli altri no. Facciamo un passo indietro: il contratto nazionale di Federculture siglato nel 1999, in un periodo in cui l’esternalizzazione dei servizi pubblici stava già galoppando alla grande, è il contratto per tutti “i dipendenti delle imprese dei servizi pubblici per la cultura, il turismo, lo sport e il tempo libero”, quindi, per quanto riguarda il nostro settore, dovrebbe essere il contratto applicato a tutti i dipendenti di cooperative, partecipate, fondazioni e in generale qualsiasi soggetto esterno alla pubblica amministrazione che fornisce servizi culturali o gestisce patrimonio culturale pubblico direttamente o indirettamente. Bene, alla luce di tutto ciò, date le decine di migliaia di persone che lavorano per queste realtà, la logica vorrebbe che questo contratto fosse applicato alla larghissima maggioranza dei lavoratori e professionisti culturali che non sono impiegati nella Pubblica Amministrazione.

Ma non è così. Lo sapevamo, ma la nostra inchiesta ci offre finalmente dei numeri.

Il 16,6% degli intervistati (sempre tra coloro che hanno un contratto!) lavora per la Pubblica Amministrazione, con il contratto di categoria. Gli altri no. Ma tra questi, il contratto di Federculture si piazza al terzo posto: solo il 7% dei lavoratori ne beneficia. Il contratto più applicato in assoluto è il Multiservizi (23%), che, lo diciamo chiaramente, non dovrebbe mai essere applicato a chi si occupa di servizi culturali, dato che è pensato per situazioni quali mense scolastiche e pulizie, segue quello del Commercio Terziario e Servizi (18,5%), e poi quello delle Cooperative Sociali (14,7%). Il contratto di Federculture è applicato ad un’esigua minoranza di dipendenti di questi soggetti. Seguono poi contratti quali Turismo (5,7%), Edilizia (5,3%), Spettacolo (3%, ma sicuramente sottorappresentato perché il nostro pubblico è composto maggiormente da lavoratori del Patrimonio Culturale), e poi altri decisamente curiosi come Servizi Ausiliari e Fiduciari (2,5%) o Metalmeccanici (1,6%). I CCNL Restauro e Federlegno, che pur esistono, sono applicati davvero in pochissimi casi, almeno nel nostro campione.

Ora, la domanda che poniamo è molto semplice, e la poniamo al Ministero, al Parlamento ma anche a Federculture stessa, che in questi anni raramente si è fatta sentire per spingere i vari attori in gioco ad applicare il contratto di cui è titolare: perché da vent’anni si lascia che siano applicati ai professionisti e ai lavoratori della cultura contratti a caso, denigranti, svilenti, con meno diritti, senza battere ciglio? A cosa serve aver creato un buon contratto collettivo nazionale se non lo si fa mai applicare? Perché non si promuove una semplice legge che vincoli le realtà private che gestiscono patrimonio pubblico a non esternalizzare ulteriormente e ad applicare sempre il contratto nazionale corretto?

Ne parleremo il 30 ottobre, alla Sala Stampa della Camera dei Deputati.

grafico contratti nazionali

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