Mi Riconosci? Emilia Romagna e Circolo Granma pubblicano un’analisi congiunta sul declino di Genus Bononiae e il suo impatto su lavoratori e concezione di spazio culturale
Nelle scorse settimane sulla stampa nazionale rimbalzava la notizia dell’imminente “liquidazione” di Genus Bononiae, il progetto di gestione museale creato nel 1991 dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna (Carisbo).
Da più di trent’anni la fondazione bancaria – che “persegue scopi di utilità sociale, promuovendo lo sviluppo economico, sociale e culturale […] con particolare attenzione alla comunità, nel cui interesse ha da sempre operato per il conseguimento del bene comune” – gestiva attraverso Genus Bononiae cinque sedi museali ospitate in complessi e palazzi storici: Palazzo Pepoli con il Museo della Storia di Bologna; lo spazio espositivo di Palazzo Fava; l’ex monastero di San Colombano con la Collezione Tagliavini di strumenti musicali; la Chiesa di Santa Maria della Vita con il celebre “Compianto” di Niccolò Dall’Arca; l’ex Chiesa di San Giorgio in Poggiale, che ospita una biblioteca specialistica di storia dell’arte bolognese ed emiliano-romagnola. Il polo museale così costituito andrà ora incontro a uno smembramento, con l’affidamento delle sedi a soggetti differenti, principalmente perché i costi di gestione diretta sono diventati, per Genus Bononiae, troppo onerosi nonostante gli investimenti milionari che la società (formalmente una Srl) riceve ogni anno da Carisbo.
Al di là delle critiche che si potrebbero avanzare al sistema incentrato su fondazioni private o a partecipazione pubblica – che tanto ha preso piede nel nostro patrimonio culturale quale “modello virtuoso” di gestione, ma che in più di un’occasione ha mostrato chiaramente i propri limiti – ci sono delle domande su cui vale la pena riflettere: come si è arrivati a questo epilogo e cosa ci insegna questa vicenda?
Genus Bononiae, una macchina da mostre
Partiamo innanzitutto con il constatare che nell’attuale Consiglio di Amministrazione, in carica dal 2021, siedono un ex manager bancario, un ex industriale, un avvocato cassazionista, la direttrice della Maison d’Italie di Parigi (l’unica con un background artistico-culturale) e tre medici. Nessun esperto in pianificazione e gestione del patrimonio culturale e nessuna figura professionale formata specificamente a riguardo. Un fatto che, di per sé, già rappresenta un problema strutturale, considerando che proprio di patrimonio culturale Genus Bononiae si dovrebbe occupare.
Se diamo uno sguardo al Bilancio di Missione 2021 – anno in cui Fondazione Carisbo celebrava i trent’anni di attività – apprendiamo che, in quell’anno, su Genus Bononiae sono stati investiti 3.000.000 di euro per la valorizzazione dei musei e l’organizzazione di eventi, al fine di “rafforzare le capacità progettuali delle realtà culturali locali” e di “stimolare la comunità a prendersi cura dei propri beni culturali”. Più o meno uguali sono i dati del Bilancio di Missione 2022, con più di 3.500.000 di euro erogati in favore di Genus Bononiae per perseguire gli stessi obiettivi. Per il 2023, come si legge nel Documento Programmatico Previsionale, la fondazione metteva in campo per Genus Bononiae altri 3.000.000 di euro. A fronte delle cifre stanziate, scorrendo le pagine appare tuttavia evidente che i progetti realizzati consistono principalmente in mostre ospitate negli spazi museali e qualche altra iniziativa tourist-friendly. A posteriori, quindi, possiamo dire che i principali interlocutori e destinatari delle attività sono stati non tanto i cittadini, ma i turisti e l’industria turistica.
Forse dovremmo chiederci se questo appiattimento delle iniziative culturali sulla realizzazione di esposizioni temporanee pensate per essere attrattive soprattutto dal punto punto di vista turistico – in linea con il modello che ormai domina nella progettualità di musei e fondazioni – non sia già, in primo luogo, un segnale di crisi. Come se ormai, per dire di fare cultura, basti prendere un museo e trasformarlo in un “mostrificio” che fa staccare biglietti e alzare le statistiche dei visitatori; poco importa, poi, se si tratta di exploit del tutto effimeri. Nel 2014, quando Genus Bononiae portò la Ragazza con l’orecchino di perla a Palazzo Fava nell’ambito di una mostra su Vermeer, l’iniziativa fu ampiamente sponsorizzata dall’amministrazione comunale (tramite la piattaforma Bologna Welcome) e celebrata dall’ex Presidente Fabio Roversi Monaco come “la mostra dei record”: più di 300.000 visitatori, più di 5.000.000 di euro di indotto, un incremento delle prenotazioni nelle strutture ricettive, più di duemila nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi turistici. Ma quanto è durato? Il tempo di una mostra, appunto. E nonostante tutto, la fondazione chiuse comunque in rosso: costi di organizzazione e di prestito delle opere troppo alti anche solo per raggiungere il pareggio. Già all’epoca il neo-presidente Leone Sibani parlò di “risorse affievolite” e della necessità di ridurre la spesa destinata ad arte e cultura. E oggi l’epilogo di Genus Bononiae ci insegna che, forse, il problema sta proprio nel misurare il valore delle iniziative culturali (e il loro potenziale) in termini di turismo e profitti, e non nella loro capacità di creare beneficio a lungo termine, di innescare processi di sviluppo, di accrescere la conoscenza, di dialogare con il tessuto sociale e di favorirne la crescita; in sostanza, di lasciare sul territorio qualcosa di duraturo. Tale atteggiamento mostra-centrico permane ancora oggi, come dimostra la recente intervista rilasciata da Luca Ciancabilla, dove le mostre costituiscono il criterio preferenziale di valutazione dell’operato della fondazione.
L’insostenibilità finanziaria e programmatica delle mostre-stella
Alle mostre si affianca il tentativo di rendere le sedi museali dei generatori diretti di introiti, con la messa a profitto di spazi per l’organizzazione di feste e eventi privati previo pagamento di un compenso. E degli interessi della comunità cosa ne facciamo? Apparentemente poco o nulla, dal momento che il sito con un più diretto impatto sulla cittadinanza in termini di servizi culturali e possibilità di aggregazione – la Biblioteca di San Giorgio in Poggiale – è andato verso una chiusura per presunta “mancanza di utenti” (comunque dopo un tentativo di trasformazione in spazio espositivo). Paradossale in una città come Bologna, dove una buona parte dei residenti è costituita da studenti universitari e dove i presidi culturali di prossimità, come le biblioteche di quartiere, sono impossibilitati a svolgere il proprio ruolo per carenza di personale, risorse e spazi. E infatti, la vicenda ha generato una contestazione da parte di fruitori e cittadini.
Nel corso degli anni, ad ogni modo, i fondi che Carisbo destinava alle attività di Genus Bononiae e alla copertura delle perdite (in passato arrivati a toccare i 10-12 milioni di euro) sono drasticamente diminuiti. Che il progetto di gestione museale, per come è strutturato, sia poco sostenibile e rappresenti per la fondazione bancaria più un vuoto a perdere che un’opportunità, non è una novità. Così come è stato ribadito che i motivi alla base della scelta stanno nella necessità di “fare economia”: banalmente, il circuito museale costa troppo e rende troppo poco.
Perché, quindi, si è scelto di dirottare la gran parte delle risorse in favore delle mostre, come se queste fossero il fine ultimo della progettazione museale ed esaurissero il ruolo del museo all’interno dello spazio urbano e della società? Perché non sono stati fatti investimenti a medio-lungo termine volti a rinsaldare i rapporti con la comunità, a favorire la nascita di servizi culturali di utilità pubblica, spazi di aggregazione cittadina? Dov’è questa cultura partecipata e di arricchimento sociale di cui Genus Bononiae si è fatta promotrice? Dov’è il dialogo con la cittadinanza e l’ascolto delle sue esigenze? Quello che abbiamo visto ci appare, piuttosto, un tentativo (fallito) di investire nel patrimonio culturale in maniera estrattivista.
La comunità bolognese pare proprio essere la grande assente di questa storia, sebbene sia indispensabile alla sopravvivenza di qualsiasi progetto di gestione museale. E non stupisce se pensiamo che, mentre l’amministrazione comunale celebra i numeri del turismo di massa e mette a punto strumenti di marketing per rendere la città “più attrattiva”, a Bologna la crisi abitativa e le dinamiche di gentrificazione trasformano i quartieri in vetrine patinate, estromettono sempre più i residenti dalla vita cittadina e dalla fruizione degli spazi. E qualsiasi iniziativa popolare, volta a sopperire le mancanze e a dar voce all’espressione comunitaria di chi la città la vive da abitante e non da turista, viene puntualmente repressa o ostacolata in nome del decoro o dell’ordine pubblico [1]. Non è un caso se dei più di 300.000 visitatori della mostra su Vermeer del 2014, il 70% veniva da fuori Bologna (un dato di cui allora ci si vantò): è il sintomo di un modello distorto che non pone al centro il bene comune e la comunità locale, ma il profitto.
Il futuro incerto dei siti e il presente grigio della città
Che fine faranno i siti di Genus Bononiae? Palazzo Pepoli sembra avviarsi a diventare un museo comunale, non senza criticità. Gli altri quattro, invece, saranno affidati a altri privati. Il bando stanzia 5 milioni di euro da erogare in più tranches nel corso di quattro anni. Il gestore incasserà le vendite ma dovrà versare a Genus Bononiae una percentuale su biglietti e visite guidate, assumersi i costi di pulizia e manutenzione degli spazi, pagare le utenze. In pratica, Genus Bononiae conserva il patrimonio immobiliare ma ne scarica all’esterno gli oneri di gestione. Non sappiamo ad oggi che fine faranno i dipendenti dello staff museale e i collaboratori esterni, al di là di qualche generica rassicurazione: se i primi (che sono una decina e sono inquadrati con il CCNL Federculture) saranno riassorbiti alle stesse condizioni contrattuali e se i secondi manterranno le proprie collaborazioni. Il rischio, come spesso accade con le esternalizzazioni dei servizi culturali, è di veder peggiorare le condizioni di lavoro.
Usciamo da questa vicenda con qualche consapevolezza rafforzata: che il privato non fa niente per niente e, se investe, non è certo per filantropia ma perché si aspetta di ottenerne qualcosa in cambio; che il modello delle fondazioni funziona fintanto che i consigli direttivi non decidono di spostare le risorse altrove, a loro discrezione e a prescindere dall’impatto che tali scelte avranno sulla comunità; e soprattutto, che non basta organizzare mostre per potersi ritenere promotori di una progettazione culturale di significato.
Ci piacerebbe tornare a immaginare una gestione pubblica del patrimonio, slegata dalle dinamiche di profitto, che torni ad essere innanzitutto un servizio alla cittadinanza (al pari di istruzione, trasporti e sanità). Ci piacerebbe tornare a immaginare Bologna non solo come una città che sfrutta la cultura per trasformarsi in un brand, ma come una città che si riappropri dei suoi spazi e pianifichi la propria offerta culturale in modo sensato e lungimirante, favorendo quanto più possibile la partecipazione dal basso, ponendo in primo piano il benessere collettivo e il ruolo sociale della cultura. Una città dove la comunità possa, finalmente, trovare spazi di vitalità, di espressione e auto-determinazione.
[1] Pensiamo ad esempio alla Vivaia TFQ, ex vivaio recuperato dal basso, il cui sgombero fu fortemente contestato dal comitato di quartiere nato in sostegno allo spazio, considerato una presenza positiva e un punto di riferimento per attività culturali e aggregative: https://www.bolognatoday.it/attualita/occupazione-vivaia-petizione-quartiere.html. Oppure allo scorso 25 Aprile, quando il Comune di Bologna tentò di sottrarre Piazza San Francesco all’organizzazione della consueta festa popolare da parte del comitato Pratello R’esiste e di altre realtà cittadine, per potervi svolgere un proprio evento a numero chiuso: https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/25-aprile-2023-pratello-retromarcia-comune-198146f.
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