La lista delle finaliste per la capitale italiana della Cultura solleva dubbi tra chi conosce da vicino quelle città, ma il problema sono i criteri di selezione per il titolo.
Il 16 novembre sono state svelate le 10 finaliste per il titolo di Capitale Italiana della Cultura 2022, dopo che quello 2021 è stato assegnato a Parma d’ufficio, dato tutto ciò che è accaduto in questo 2020. Le finaliste sono Ancona, Bari, Cerveteri, L’Aquila, Pieve di Soligo (Treviso), Procida, Taranto, Trapani, Verbania e Volterra. Metropoli, piccoli centri e isole, da Nord a Sud del Paese. Diciotto invece le città candidate escluse, da Tropea a Verona, da Arezzo a Carbonia, fino a Fano o Venosa.
La lista potrebbe aver sollevato qualche perplessità in chi, amante della cultura o lavoratore del settore, quelle città, o quelle cittadine, le conosce. A Trapani non c’è un teatro. A Procida neppure, e la biblioteca è aperta 12 ore a settimana. Pieve di Soligo è nota nel territorio limitrofo più per il tradizionale spiedo gigante che per il suo piccolo museo, di dubbia fruibilità. L’Aquila e Taranto sappiamo tutte e tutti in che condizioni siano: l’una da 11 anni ostaggio di una ricostruzione che procede a rilento, per usare un eufemismo, l’altra di una fabbrica che ne divora ogni anno il territorio e il tessuto sociale. Ad Ancona e Bari i musei nazionali locali fanno poche decine di migliaia di visitatori l’anno: in città che contano centinaia di migliaia di abitanti.
Ma, è bene ricordarlo, nel bando per diventare capitale italiana della cultura il pregresso, ovvero ciò che l’amministrazione ha fatto in passato, la disponibilità di servizi culturali (o il fatto di averli chiusi, eliminati o abbandonati), come insomma si è fatto cultura negli anni recenti, non ha alcun rilievo. Nel dossier di candidatura bisogna presentare soltanto: “a) il progetto culturale, inclusivo del cronoprogramma delle attività previste, della durata di un anno; b) l’organo incaricato dell’elaborazione e promozione del progetto, della sua attuazione e del monitoraggio dei risultati, con l’individuazione di un’apposita figura responsabile; c) una valutazione di sostenibilità economico-finanziaria; d) gli obiettivi perseguiti, in termini qualitativi e quantitativi, e gli indicatori che verranno utilizzati per la misurazione del loro conseguimento”. Basta. Il resto è superfluo. E il passato lo racconta: a Pistoia, a Palermo, in tante altre realtà poi divenute capitale italiana della cultura, il titolo venne assegnato nonostante problemi di degrado che attanagliavano siti culturali da anni. A Parma i bibliotecari erano inquadrati con il contratto multiservizi.
Quindi dobbiamo presupporre che i dossier presentati da queste 10 città fossero i migliori in assoluto. Siamo costretti a presupporlo, dato che non sono stati resi pubblici dal MiBACT al momento dell’annuncio. Però lasciateci avere almeno un dubbio a riguardo: se un’amministrazione non è dotata di un ufficio cultura e turismo che ha lavorato bene negli ultimi decenni, appare strano che gli stessi uffici riescano a sfoderare un dossier eccellente, che risponda a criteri quali “innovatività e capacità delle soluzioni proposte di fare uso di nuove tecnologie, anche al fine del maggiore coinvolgimento dei giovani e del potenziamento dell’accessibilità” o “capacità del progetto di incrementare il settore turistico, anche in termini di destagionalizzazione delle presenze”. E non ci risultano assunzioni mirate di professionisti del settore per scrivere questi dossier. A Volterra, che pur sembra una delle candidature più solide, i progetti presentati sono stati redatti da giovani che hanno offerto la propria professionalità gratuitamente a poche settimane dalla consegna. Il tutto guidato da Paolo Verri, già direttore della Fondazione Matera 2019 che ha dimostrato grandi capacità nell’ottenere il più possibile dal lavoro volontario.
E in effetti, se andiamo a leggere le dichiarazioni dei finalisti, i progetti a volte non sono neppure menzionati. “Una perla incastonata nel cuore di un territorio già dichiarato Patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco, che sublima un tesoro di valori culturali, storici e ambientali” dice il presidente del Veneto riguardo a Pieve di Soligo. “Come spieghiamo nel dossier presentato, puntiamo a rappresentare tutte le piccole isole e anche l’area flegrea” spiega il sindaco di Procida.
Simboli. Come Taranto, come L’Aquila. “Verbania merita un palcoscenico nazionale e nel momento di difficoltà attuale questa notizia è uno splendido raggio di sole” secondo le parole dell’assessore alla Cultura. Simboli a volte stupendi e carichi di speranza, a volte meno: celebrare territori in cui l’aggressione al paesaggio o l’esclusione sociale sono il pane quotidiano forse meriterebbe un’attenta riflessione.
Ci sentiamo di dire che se la scelta deve essere basata su progetti costruiti all’ultimo momento da persone che lavorano gratis, non solo non ha senso, ma finisce per essere anche dannosa. Non è questo il modello che consente di far crescere le nostre città d’arte, in particolare quelle lontane dai circuiti turistici; non la competizione, non l’improvvisazione, non il lavoro gratuito. Paradossalmente lo abbiamo visto anche per Matera, che ha ottenuto un titolo molto più rilevante, e che a fronte di finanziamenti per centinaia di milioni di euro, impiegando poche decine di lavoratori e 1500 volontari non è riuscita a costruire un modello di sviluppo turistico ed economico sostenibile e duraturo sul medio e lungo termine.
Se invece la scelta è simbolica, per dare una speranza a un territorio o suggellarne il successo a prescindere dal progetto e dalla credibilità dello stesso, allora lo si dica: la capitale italiana della cultura è un titolo simbolico. Noi continuiamo a pensare che invece possa diventare una straordinaria risorsa per la crescita dei territori: ma c’è bisogno di ripensare i criteri all’accesso e di una diversa trasparenza nella selezione. Ad esempio obbligando chi si vuole candidare ad avere progetti solidi molti mesi prima della candidatura, costruiti con e per il territorio, e non per la città; escludendo dalla candidatura tutte le città che non garantiscono un certo investimento annuo costante al settore culturale e quelle che hanno chiuso musei e biblioteche; vincolando la candidatura all’assunzione e all’impiego di un certo numero di operatori regolarmente pagati, eccetera. In questo modo, prevedendo magari anche un premio sostanziale e non simbolico per chi vince, si potrebbe attivare un circolo virtuoso. Si può fare.
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