Pubblichiamo di seguito la riflessione ricevuta da una funzionaria del MiC sul lavorare all’interno del Ministero della Cultura
Pochi giorni fa, con il noto tempismo estivo, il Ministero della Cultura ha chiesto a uno stuolo mai così nutrito di vincitori e vincitrici di concorso di esprimere le preferenze per le sedi di destinazione. Senza indicare i numeri di posti disponibili per singola sede e senza dire che alcune destinazioni stanno per essere modificate da imminenti decreti attuativi. In tanti e tante hanno stilato quindi elenchi di desiderata da Torino a Brindisi.
Ho amiche e amici storici dell’arte tra i vincitori e gli idonei. La possibilità di lavorare con colleghi in gamba e simpatici è meravigliosa, mi sono detta! Ma poi mi sono chiesta se, onestamente, consiglierei a validi studiosi miei coetanei che potrebbero brillare altrove,di entrare nelle fila del Ministero. E su questa domanda, o meglio sulla mancanza di una pronta risposta affermativa, mi sono pietrificata.
La domanda attraversa non solo la mia testa, ma anche alcuni vincitori e idonei si stanno interrogando SE accettare il posto da funzionario nel Ministero della Cultura. Certo, c’è lo stipendio sicuro e i benefit del lavoro fisso, che non vanno affatto sottovalutati. Ma lo stipendio non è abbondante per sostenere le spese di affitto in grandi città cannibalizzanti; le ferie sono meno di quelle in altri ministeri; il tempo libero per fare altro è un falso mito; la soddisfazione, come la felicità, è a momenti. A questa età poi abbiamo chi figli, chi amati, chi genitori, case o altro da accudire, lavori precedenti da interrompere, partite Iva da chiudere. Uno spostamento lungo lo stivalone italico è un terremoto che non tutti sono pronti ad accogliere nella loro vita.
Cosa direi quindi, da interna, ai possibili nuovi colleghi? E cosa direi a me medesima: mi consiglierei il lavoro che faccio, e che nonostante tutto non sto pensando di lasciare?
Ci sono due dati di cui si deve prendere atto e su cui meriterebbe riflettere. Uno è la perdita di prestigio del posto fisso tout court; il secondo è la riduzione di interesse per il Ministero della Cultura anche da parte di chi si è formato in questo ambito di studi (e non è più studente di primo pelo). Lo storico dell’arte in questo periodo ha poca identità professionale e non la reclama abbastanza. Esiste poi una gerarchia non scritta per cui a pensiero sottaciuto di molti si è storici dell’arte validi se si è nell’Università, mediocri se nei Musei, meno riusciti se in Soprintendenza. Potete storcere la bocca ma sapete che per alcuni è così, e mi è stato chiesto più volte quando proverò i concorsi all’Università, col tono preoccupato di chi ti chiede quando la smetterai finalmente di bere, fumare e farti del male, e rinsavirai sulla retta via. Con questo dobbiamo fare i conti.
Al tempo stesso non nascondo il dispiacere, da interna, nel vedere che il lavoro al Ministero della Cultura sia oggi, per ragioni anche comprensibili, non intrapreso di slancio ma soppesato sulla bilancia delle distanze chilometriche, dello stile di vita. Gli uffici, sempre più spesso, si sono fatti più grigi e pavidi. Ma confido ancora ci possa essere una svolta e questa dipende anche da chi ci lavora e dalle ragioni per cui sceglie di lavorarci.
Dal mio punto di vista di funzionaria in Soprintendenza, incarico che nonostante tutto ad ora non baratterei con altro, il punto debole è la poca valorizzazione della competenza e la quantità a discapito della qualità. Quantità vuol dire di carte, di pratiche, di “servizi all’utenza”. E molti di quegli atti, ripetitivi, amministrativi, di cancelleria, sarebbero gestiti egregiamente da brave/i assistenti o segretarie/i, se mai ci fossero.
La soluzione sarebbe semplice: più personale, tantissimi assistenti, ripensare il mansionario, concorsi seri e selettivi per numeri congrui di posti, con bandi ogni due anni. Non come ora, ogni dieci, che pare di giocarsi il biglietto della lotteria. Infine, smetterla di cambiare i nomi degli uffici e le piante organiche ogni cambio di governo, come in giocate a Risiko.
A me manca la ricerca e lo studio, e quella minima dignitosa sicurezza che dà l’essersi preparati prima di mettersi a dialogo con altri professionisti. Manca sentire che come ufficio possiamo prendere, quando serve ed è giustificato, posizioni forti. Ci sono giornate di noia in cui mi staccherei la testa. Ma credo che risponderei che nonostante tutto sì, mi piace il lavoro che faccio. E me ne ricordo principalmente quando esco in sopralluogo, o quando sono con gli studenti e vedo in loro l’entusiasmo per il lavoro sul campo e di tutela.
Quindi credo che agli amici, e a me stessa, direi che SI, questo è un lavoro appassionante, vario e che piacerà. SE. Se si ha l’impegno di piegarlo un po’ nella propria direzione, ritagliarsi i tempi, reclamare curiosità. Il lavoro sicuro è tanto. Ma dobbiamo scegliere non solo “il posto fisso”. Dobbiamo dirci che le gerarchie professionali non scritte sono delle grandi fesserie. Dobbiamo scegliere quello che di pancia ci rende più felici e dove potremo con le nostre doti personali e professionali fiorire e far fiorire maggiormente. Lo dico, e me lo dico, ed è poi per questo che questo lavoro mai ho pensato di lasciarlo (però che fatica, più passa il tempo, far quadrare vita e motivazione).
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