L’indagine sui monumenti femminili da noi pubblicata ha suscitato grande clamore mediatico. Ma è necessaria un’approfondita riflessione sul rapporto tra spazio pubblico e rappresentazione.
Nelle nostre strade ci sono pochi monumenti femminili: 148 circa, stando a quanto raccolto attraverso il censimento da noi condotto tra settembre e ottobre. Un censimento che riguarda figure realmente esistite, personaggi (letterari o leggendari) e figure anonime collettive, e come queste vengano rappresentate. Avevamo previsto di condividere le nostre riflessioni sui risultati in concomitanza con la pubblicazione della mappa interattiva contenente ogni singolo monumento – contiamo di renderla nota in 8-10 giorni -, ma gli eventi ci hanno spinto a scrivere già ora cosa pensiamo degli esiti del nostro lavoro. Di rado, infatti, i risultati delle nostre ricerche e denunce hanno avuto un impatto simile a quello incontrato da questo censimento: in due settimane ne hanno trattato ripetutamente la Repubblica, La Stampa, Avvenire, Vanity Fair Italia, Finestre sull’Arte, Agorà su Rai3, oltre a diverse testate locali e di settore. Abbiamo ricevuto l’apprezzamento di deputate della Repubblica. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, d’improvviso ha proposto di innalzare 5 statue di donne. La Val d’Aosta ha diffuso un comunicato in cui riflette sul tema partendo dai nostri dati. Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, ha proposto di erigere una statua alla giornalista Tina Merlin a Belluno, sua città natale.
Il dibattito ha preso pieghe e velocità inattese, ed ecco perché ci troviamo a scrivere queste righe, a spiegare la nostra inchiesta, a spiegare ciò che pensiamo. Partiamo dall’inizio.
L’indagine e il dibattito suscitato
Alla base del censimento e della presentazione dei risultati c’era la necessità, per noi tutte, di prendere coscienza di come viene rappresentata – e considerata – la donna in Italia, e di ridiscutere il ruolo dei monumenti nella creazione di uno spazio pubblico partecipato, inclusivo e democratico. Abbiamo iniziato a raccogliere i dati alla fine di settembre e i risultati sono stati un po’ diversi da quello che ci aspettavamo.
Molte delle opere che abbiamo raccolto sono recenti: oltre il 50% è commissionato dopo il 2000, in località diverse, spesso lontano dai grandi centri. Non ci ha affatto stupito riscontrare che gli stereotipi sessisti con cui le donne devono fare i conti nella vita reale riguardano anche molte statue che le rappresentano, e spesso in maniera smaccata. I grafici che abbiamo pubblicato sono decisamente chiarificatori in merito: il 90% delle opere sono realizzate da soli autori maschi, in linea con gli amministratori che commissionano, o almeno approvano, le medesime. Dunque uomini che raccontano le donne e anche questo non ci ha sorprese. I soggetti selezionati ne sono conseguenza: donne che svolgono lavori umili e pesanti, che crescono figli, che aspettano mariti, che curano i figli di altre persone, che salvano i compaesani per caso o che muoiono tragicamente. Poche si distinguono per i meriti intellettuali, molte per la bellezza. Qui una sintesi dei risultati. Fin dal principio, nostro obiettivo è stato problematizzare questi aspetti: come vengono scelte le donne da immortalare nel bronzo e come vengono rappresentate.
Come abbiamo accennato in apertura, il dibattito è esploso immediatamente, dopo la pubblicazione dei primi risultati intermedi sulle nostre pagine social. Le notizie ancora si susseguono di ora in ora. Nel momento in cui leggerete queste righe, è probabile che altri articoli siano usciti sul tema. Ma se in alcuni casi l’argomento è stato trattato come speravamo, riflettendo insieme a noi su come viene rappresentata la donna nello spazio pubblico e non solo elencando chi manca, in altri casi, soprattutto da parte di amministrazioni e giornali locali, sono partite difese accorate alle proprie statue discinte o precisazioni fuori tema sulla presenza di Madonne e figure allegoriche nel proprio campanile, soggetti che noi abbiamo deciso di escludere dal censimento, come chiarito fin dall’inizio.
Sui social, di pari passo, la risonanza è stata immediata e inaspettata, ma il focus è stato spesso spostato, confondendo di nuovo i termini del problema. Abbiamo ricevuto moltissimi spunti sulle varie piattaforme, dalla segnalazione di ulteriori monumenti da visionare, alla condivisione di considerazioni ed esperienze urbane, e, nonostante il dibattito che siamo riuscite a delineare insieme, non possiamo non sentire anche l’amaro sapore dei tanti consigli fuori luogo, della delegittimazione, del paternalismo, dell’invisibilizzazione, del sessismo con toni più o meno pietistici, e, soprattutto, del benaltrismo: “I diritti che le donne devono pretendere siano rispettati sono altri”, come se parlare di un problema equivalesse a tralasciare tutti gli altri.
Il nostro punto di vista
Chiunque come noi si sia posto in maniera critica rispetto alla Spigolatrice di Sapri o ai casi su cui abbiamo puntato l’attenzione col nostro censimento, come la Lavandaia di Bologna o la fontana a Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli ad Acquapendente (VT), si sarà sentito rispondere da qualcuno che di statue femminili nude sono pieni i nostri musei, dall’arte greca e romana a Paolina Bonaparte ritratta da Canova. Il problema, lo vogliamo chiarire, sta nell’utilizzo del nudo non come categoria artistica, ma in maniera strumentale alla rappresentazione delle donne. La questione per noi è: vogliamo davvero riallacciarci a questo passato e perpetuare questi stereotipi? La condizione femminile dei secoli scorsi è stata spesso miserrima, le donne non avevano possibilità di autodeterminazione e vivevano in funzione dell’uomo e della famiglia. Vogliamo quindi mantenere questi modelli e applicarli alla statuaria pubblica di oggi?
La statuaria pubblica dell’Ottocento e del Novecento è piena di corpi sessualizzati, si pensi al celebre sedere della Vittoria di Rimini, ammirato dai protagonisti di Amarcord di Fellini sotto la pioggia. Si tratta sempre di figure allegoriche e l’immagine generale del femminile non ne ha certo giovato, ma una statua che rappresenta una donna sessualizzandola – quando, invece, dovrebbe celebrarla – è molto più offensiva. Che le giornaliste Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli siano nude non solo è anacronistico, ma assai più grave rispetto a quanto fatto da chi ci ha preceduto. E la maggior parte degli orrori da noi raccolti, sono datati proprio a questi ultimi decenni.
Ci siamo chieste quanta solitudine fosse in grado di generare lo spazio pubblico, e ci siamo chieste il modo in cui questo sentimento si palesasse nella vita quotidiana; quanto il potere e la segregazione passino anche per la costruzione di una storia ben tessuta tra le strade e gli angoli delle città: gli uomini gloriosi sono su alti piedistalli e troneggiano nelle piazze; mentre, per tutte le altre soggettività che sono sempre rimaste fuori dall’élite agente e dalla rappresentazione storica, gli spazi destinati al posizionamento delle statue sono curiosi, ritagliati, ai margini o centralmente delimitati: ci si ritrova rappresentate nei giardini, sulle battigie, piccole piccole agli angoli delle strade o in confortanti fontane; siamo nude o a veli scoperti quasi sempre: quando piangiamo, quando ci spacchiamo la schiena, quando riposiamo. Le nostre facce, i nostri nomi non ci sono quasi mai e le nostre storie diventano materiale di conquista per la riproposizione della cultura della vergogna, quella dovuta da ogni individuo rispettabile nei confronti della società organizzata: soldati, eroi, personaggi illustri, artisti, strateghi insegnano precise condotte e vergogne.
Siamo abituate alla sessualizzazione dei corpi, oltre che al ruolo di cura e di sacrificio rivestito in modo prioritario dalla donna, e vederci rappresentate così è qualcosa che non notiamo: analizzare il processo di interiorizzazione delle vergogne non maschili è la realtà da cui partire, non un motivo sufficiente per fingere che il problema non esista.
La Spigolatrice non è neanche l’ultima delle statue sessualizzate poste nello spazio pubblico. Già circolano imbarazzanti selfie di uomini che le toccano la parte del corpo più nominata, prova che il reale intento dell’autore che ha “approfittato della brezza marina che la investe per dare movimento alla lunga gonna, e mettere così in evidenza il corpo” è stato correttamente recepito dai passanti. Altre statue sessualizzate sono state oggetto di simili attenzioni, basti ricordare la Lavandaia di Massa, detta “Puppona”, il cui marmo candido è stato più volte colorato nelle parti dei capezzoli e del volto con un trucco volgare. Le sue caratteristiche intrinseche sono state dunque ancora una volta recepite dai cittadini ed enfatizzate con atti che, sia chiaro, non intendiamo in alcun modo giustificare. Un destino avverso purtroppo affligge anche la statua di Cecilia, presunta amante del pittore Giorgione, posta, ovviamente nuda, in una piazzetta di Castelfranco Veneto. La scultura è stata spesso oggetto di atti vandalici, tra i quali un uomo che vi si sarebbe arrampicato per urinarle addosso.
Perfino statue che vorrebbero denunciare molestie e violenze spesso sono portatrici del messaggio opposto. La Lavandaia di Bologna (2000), che abbiamo spesso citato, nelle intenzioni dell’autrice dovrebbe raccontare le molestie di cui erano vittima le lavandaie bolognesi guardate e commentate dagli uomini nel lavatoio che chiamavano scherzosamente, per loro, “cinematografo”. Quello che noi vediamo è, però, una donna nuda inginocchiata in una tinozza, esposta inerme allo sguardo del passante. Perfino peggiore è il celebre caso della Violata di Ancona (2013), che vorrebbe ricordare “tutte le donne vittima di violenza”. Invece, è una donna con le vesti strappate a mostrare seno e sedere, posta all’imbocco di una galleria di snodo tra il porto e la città alta: più che una denuncia è un morboso “spot” di una violenza, come è stata brillantemente definita. Diverse petizioni sono state lanciate per rimuovere sia la Lavandaia che la Violata, anche in tempi recenti, e sono evidentemente rimaste inascoltate.
Sarebbe errato invocare la cosiddetta “visione dell’artista” di fronte a questa tipologia di monumenti. Un’opera in uno spazio pubblico è pensata per trasmettere dei messaggi, per raccontare la società, per essere guardata quotidianamente. La statuaria pubblica, infatti, si pone per natura come strumento di diffusione di valori morali e di controllo, promuovendo l’osservanza a delle regole attraverso l’emulazione, e in questo modo a gran parte della popolazione viene insegnato che effettivamente c’è un mondo di cose, sentimenti e spazi per loro (e anzi perché non di più? più statue!, più donne! come si è proposto), ma sono mondi ridimensionati, certamente onesti e virtuosi, tuttavia monchi di prospettive e ambizioni. L’artista, in caso di committenza pubblica, ha quindi per noi la responsabilità politica della restituzione pubblica dei sentimenti e delle realtà rappresentate, che deve essere consenziente.
La necessità di un nuovo dibattito per un nuovo linguaggio
Per tutto quello sopra elencato riteniamo sia necessario un dibattito nuovo, che interroghi sullo spazio pubblico e sulla percezione che ne abbiamo tutte, nessuna esclusa, attraversandolo. Ci rendiamo conto di vivere corporalmente città piene di corpi fissi, simulacri del mondo giusto, che se non è il migliore possibile è comunque il più ordinato. Che questi simulacri siano nudi o vestiti ci interessa nella misura in cui realizziamo che anche se quei marmi e quei bronzi che non mutano mai, non mostrano ferite, non piegano le espressioni, hanno il potere di modificare i nostri di corpi ed il nostro modo di viverli tutti i giorni: la loro nudità è un linguaggio comunicativo potente e non è quasi mai l’espressione di autodeterminazione, ma di regola e condotta.
Un nuovo dibattito che rifletta sullo spazio pubblico, non nuovi monumenti. Durante la disamina delle statue femminili ci siamo più volte interrogate su cosa ci convinceva e perché. Abbiamo notato che le opere che ci piacevano di più non andavano quasi mai a riprodurre le fattezze delle donne che volevano celebrare. È il caso del monumento a Grazia Deledda dell’artista Maria Lai, Andando via (2012). L’artista omaggia Deledda con una serie di elementi separati su cui disegna alcuni personaggi femminili della scrittrice, non ne racconta, quindi, i lineamenti, come fanno ben altre tre statue a lei dedicate a Nuoro, ma il lavoro. Un altro monumento che ci è piaciuto molto è di quest’anno: Fischia il vento che omaggia le partigiane a Milano. Anche questa volta protagonista non è la presenza fisica femminile nelle sue fattezze, reali o ipotetiche, ma il suono prodotto dalle canne metalliche da cui è composta l’opera: su ognuna è inciso il nome di battaglia di una partigiana che oscilla nel vento. Con grande delicatezza si evocano quindi le ansie e le speranze di quel momento storico e non la classica figura femminile sofferente, come invece accade nella Partigiana di Venezia (1969), ritratta morta sulla riva. Efficace e puntuale, già dal titolo, è poi È questo dunque un monumento? (2012) che ricorda le operaie della fabbrica della gomma Superga a Torino: su una fontana preesistente sono state inserite quattro lastre che riproducono le quattro azioni che le operaie ripetevano durante la loro giornata lavorativa.
L’ultimo che vogliamo ricordare è quello che secondo noi indica meglio la direzione da intraprendere: il monumento alle 128 partigiane che persero la vita durante la Resistenza del parco di Villa Spada a Bologna. L’opera, sebbene con qualche caduta di stile nelle iscrizioni, è il frutto di un progetto straordinario e veramente condiviso, scaturito dal gruppo di architetti Città Nuova. Dal 1975 al 2015 la popolazione studentesca di diversi ordine e grado è stata coinvolta per realizzarne i variegati elementi, spesso in materiali deperibili affinché il monumento venga sempre rinnovato e con esso la memoria delle partigiane.
Nel frattempo, in questo dibattito ci siamo e ci rimaniamo, perché non è stato il dibattito che avremmo voluto, e sappiamo anche che non c’è granché da festeggiare se, al contempo, i dati terrificanti sulle condizioni di lavoro nel settore non trovano la stessa attenzione e ascolto sui media: per chi comanda è più facile erigere una statua, che concedere diritti e il rischio di “monumental washing” è dietro l’angolo. Ne siamo perfettamente consce e non ci interessa mantenere questo sistema di potere con qualche belletto in più. Ma se grazie anche al nostro lavoro e impegno le nuove generazioni cresceranno più libere da categorie e stereotipi, sapendo di poter rompere i modelli imposti reimmaginando lo spazio intorno a sé, avremo fatto qualcosa di davvero importante.
E quindi, mentre c’è chi si sta ancora chiedendo perché parliamo di statue, chi propone una rivoluzione rosa della scultura pubblica in termini numerici, chi augura alle ossessioni femministe di farsi un giro sulla giostra dei problemi più seri e pregnanti o invece ci consiglia quali siano le lotte che dovremmo costruire per la nostra autodeterminazione… proponiamo un brindisi: brindiamo ai corpi tristi, a quelli non raccontati, alle storie non degne di rappresentazione e alle voci che non vengono ascoltate, al sesso, ai corpi vivi nella città. Vogliamo e dobbiamo tornarci insieme, in città, che deve essere corpo vivo e lo diventerà solo attraverso la partecipazione, la messa in discussione dei modelli imposti e la lettura transfemminista, antifascista, antirazzista e decoloniale dello spazio urbano. Per lə esistitə, lə esistenti e lə esistibili: cin!
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La memoria di Margherita Hack affidata a Deloitte - Jacobin Italia · 18/01/2022 at 11:17
[…] figura per creare l’ennesimo monumento aconflittuale e acritico. È quello che l’associazione Mi Riconosci ha definito monumental washing, è stravolgerne la memoria. È un fatto che chiunque abbia a cuore […]