Nell’anno zero del turismo parlare soltanto di ripartenza non basta: dobbiamo discutere di un nuovo sviluppo turistico guidato dalla cultura.
Il 29 gennaio scorso l’organizzazione mondiale del turismo, l’UNWTO, pubblicava il suo report annuale con un titolo glaciale: “2020, l’anno peggiore nella storia del turismo”. Un miliardo di viaggiatori in meno, un crollo del settore, a livello globale, di oltre il 70%. Una situazione simile non si era mai vista, non con tali proporzioni, e tutti abbiamo certamente sentito invocare da diverse parti una rapida ripartenza del settore turistico.
Molti avranno sentito anche voci discordanti, probabilmente sature delle brutture del turismo di massa, in città come Firenze e Venezia. Ma poiché nessuna ripartenza rapida potrà avvenire, come attesta la stessa UNWTO, si rende necessario ampliare il dibattito e creare un’alleanza tra le parti sociali per trovare insieme delle soluzioni condivise. Per fare questo serve innanzitutto scollarsi dalle posizioni polarizzate di chi, da un lato, ha il bisogno urgente di riprendere a lavorare per poter sopravvivere alla crisi e di chi, dall’altro, ha sofferto l’overtourism per anni e solo con la pandemia ha potuto riprendere aria. Proviamo quindi a rispondere a cinque domande che pensiamo indispensabili per essere costruttivi in questo momento storico.
A che serve (o meglio dovrebbe servire) il Turismo?
La nascita del turismo moderno, ricondotto al primo viaggio organizzato da Thomas Cook nel 1841, non trascendeva apertamente il concetto di viaggio, seppur rendendo il viaggio stesso diverso. Un’attività umana ancestrale diventava attività economica: il viaggio diventava prodotto. Organizzare un viaggio, per renderlo più accessibile o interessante, non era di per sé un’idea malvagia o immorale perché non cambiava il senso di fondo del viaggio. Ma l’Archè del turismo, negli ultimi sessant’anni di crescita del comparto, si è ridotta al mero profitto. Oggi, per essere considerati turisti al livello tecnico-statistico serve davvero poco. Basta pernottare fuori dalla propria residenza, in un luogo che non si frequenti abitualmente, cioè operare una transazione presso una qualsiasi struttura ricettiva e il gioco è fatto. Questo significa anche che il motivo del viaggio, qualunque esso sia, non fa in generale alcuna differenza. Chiunque vada e venga in giornata, in qualsiasi luogo e non abitualmente, resterà, invece, fuori conteggio e considerato escursionista. È quindi generalmente sbagliato considerare turismo e viaggio due concetti equivalenti, eppure il senso recondito del turismo dovrebbe essere proprio quello. Viaggiatore che sia, oggi soltanto la spesa per un pernottamento fuori casa lo renderà turista.
Ma il turismo non deve servire a fatturare, o meglio, non solo e non soprattutto. Il senso corretto del viaggio è per noi, infatti, quello di cercare nel tempo a disposizione, tramite stimoli ed esperienze positive, di trovare serenità, di migliorare la propria condizione grazie all’incontro di nuove persone, alla scoperta di nuovi luoghi, all’acquisizione di nuove conoscenze e al confronto con idee e culture diverse dalle nostre. Incontro che è anche scambio, in cui non restare affatto uguali a prima, ma crescere, portando indietro con sé un nuovo ricordo, una nuova esperienza, una nuova conoscenza, una nuova amicizia o una nuova idea. Lasciare che il turista cambi, cresca, significa imprevedibilità e rischio per chi guadagna dal turismo di massa. Per questo tutto viene standardizzato, brandizzato, e gli utenti vengono profilati per la creazione di zone di comfort, dentro cui nulla cambia (villaggi enclave, comfort food, etc.), dove tutto è omogeneizzato e domanda e offerta devono combaciare perfettamente.
Il turismo deve, invece, combaciare nuovamente con il viaggio e produrre cambiamento, scambio e crescita, prima che indotto economico. Organizzarlo dev’essere il modo per aumentare la partecipazione e rendere la crescita davvero collettiva, inclusiva delle comunità che accolgono. Il turista deve diventare cittadino, integrato nella comunità che lo accoglie, pronto ad arricchirla e a sentirsi cittadino di più luoghi, cittadino italiano, europeo, del mondo. Ha senso viaggiare per imparare e formarsi quindi come cittadino. Viaggiare per tornare uguali a prima non ha senso!
Organizzare il viaggio deve per questo significare anche collaborare con le comunità che riceveranno i turisti, stimolando le identità locali a esprimersi e raccontarsi. Incontrarsi e confrontarsi vuol dire raccontarsi e per questo serve conoscersi, innanzitutto per apprezzarsi. Il turismo deve essere per questo stimolo di supporto per ogni territorio ad esprimersi culturalmente, ad attivarsi nello studio, nella tutela e nella valorizzazione del proprio patrimonio culturale prima di tutto per i propri cittadini e quindi, per acquisirne di nuovi.
Quale turismo vogliamo riparta e quale no?
La malattia del turismo che conosciamo è l’ambiguità dei termini comunemente utilizzati, che rende insostenibile il dibattito pubblico e incostruibili interessi comuni. Parlare di benessere o sostenibilità viene spesso strumentalizzato finendo per spalleggiare chi vuole intendere soltanto benessere economico e sostenibilità economica a scapito di tutto il resto. Usare un vocabolario chiaro è quindi un passaggio necessario per rispondere a questa domanda. Parlare di “turismo” senza connotarlo è sciocco, equivalente ad ogni altra generalizzazione di sorta: le donne, gli uomini, quelli della bilancia, i giovani, i genovesi, etc. Lanciare frasi ad effetto non cambierà la sostanza, cioè che esista un’innata differenza tra i vari segmenti turistici, nati e cresciuti in tempi, luoghi e modi diversi, per persone diverse. Da professionisti dei beni culturali ci interessa principalmente che riparta il turismo culturale, ma la condizione che vediamo fondamentale per la sua ripartenza è che si configuri anch’esso come sostenibile ecologicamente, socialmente e moralmente. Poniamo quindi gli aspetti economici come una auspicabile conseguenza e mai come la ragione prima del turismo.
Noi intendiamo per sostenibile ciò che è contemporaneamente ritenuto tale da tutti gli attori del turismo, partendo dalle comunità che lo vivono passivamente e che devono diventare parti attive, senza mai più subirlo. Bisogna smontare necessariamente l’idea che sia il turismo a portare crescita o benessere, come fosse un anonimo caritatevole benefattore. Devono essere le comunità a ricercare il proprio benessere, solo secondariamente stimolate dal turismo, che non può essere mai sostenibile come monocoltura. Non vogliamo, al contrario, che riparta nessun tipo di turismo che sia di massa, banalizzante, mosso da principali obiettivi economici, che non consideri la partecipazione e le possibilità di veto delle comunità che ricevono il turismo. Non vogliamo turismo che non preveda crescita culturale collettiva sostenibile per l’ambiente, per i cittadini e per i lavoratori e per quanto, ci rendiamo conto, molti interessi economici oggi esistenti siano difficili da scardinare, urge ugualmente un ragionamento a monte, che riparta da nuovi obiettivi politici.
Perché il mondo della cultura deve occuparsi di turismo?
La crescita che ci aspettiamo, dal turismo che vogliamo, ha bisogno della cultura. Il turismo che vogliamo dev’essere una delle tante gambe del comparto culturale, al suo servizio. La Cultura cioè deve funzionare anche senza il turismo e deve scegliere di usarlo per camminare. Dobbiamo attivamente contrastare la visione becera che vede il turismo come unica vocazione possibile della cultura, come unico scopo ragionevole perché produce ricchezza economica. Dobbiamo vedere le cose esattamente nell’ottica contraria, cioè la cultura come vocazione naturale del turismo, che dev’essere sempre più culturale, in forma sostenibile, e sempre meno massificato. Tutti i comparti del turismo possono sposare una vocazione culturale e scegliere di essere sostenibili per l’ambiente, per le comunità e per i lavoratori. Perfino una crociera può arrivare ad avere una spiccata vocazione culturale, ma la cultura, per certo, non può avere mai più come unica vocazione, nella testa di nessuno, di essere meta di una crociera.
Il ruolo dei professionisti dei beni culturali dev’essere quindi anche quello di favorire questa transizione, insegnando al turismo a rispettare il ruolo del patrimonio culturale, inteso anche come ambientale. Se come emerge dalla convenzione di Faro è vero che il patrimonio serva alla democrazia, allora i nuovi turisti-cittadini devono partecipare alla vita democratica dei luoghi visitati.
Urge che il mondo della cultura si consapevolizzi del fatto che solo con un impegno di classe il turismo possa cambiare e non rispondere più alle mere logiche neoliberiste in cui il mercato è dominus incontrastato.
Cosa serve sul piano locale e nazionale?
Serve una forte regia nazionale che dia al turismo argini e regole univoche per diventare sostenibile. Per questo serve riportare la competenza in materia turistica in capo allo Stato correggendo il titolo V della Costituzione. Serve che lo Stato investa sulla cultura, nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio culturale, nella formazione dei professionisti e nella ricerca, nella tutela dei lavoratori e delle professioni culturali e turistiche affinché il mondo della cultura possa servirsi del turismo per creare crescita culturale collettiva, scambio, integrazione e trasformare i turisti in nuovi turisti-cittadini. Lo Stato deve poi certamente caricarsi anche di scelte impopolari, andando contro determinate lobby e interessi economici di gruppi ridotti, che evitino il perpetuarsi cieco dell’overtourism e dello sfruttamento dei lavoratori.
Organi come l’Osservatorio Nazionale del Turismo devono avere maggiore ruolo, al servizio del MiBACT, nel monitorare le attività turistiche e in una pianificazione scevra dalla logica della massificazione e che, anzi, al contrario, ponga l’attenzione e rivolga gli sforzi ai territori “secondari”, programmando la delocalizzazione dei flussi turistici. Mai più dovremo avere una comunicazione che riduca una regione come il Veneto a “land of Venice” o l’intera Romagna a discoteche, parchi divertimento e stabilimenti balneari. Serve che gli enti locali si facciano portatori di questo cambiamento e costruiscano un dialogo aperto e costante con i cittadini, facendo funzionare una rete di osservatori locali del turismo, secondo le linee guida nazionali. Osservatorio nazionale e osservatori locali dovranno poi superare il sistema di misura basato su arrivi e presenze, tutto in capo alle strutture ricettive, per poter considerare a pieno e far crescere il turismo di prossimità. Oggi i dati statistici raccolti dai vari enti in tutto il Paese misurano solo l’indotto economico. Abbiamo davvero bisogno di misurare anche l’indotto culturale. Si conta normalmente il numero di visitatori dei siti culturali ed è necessario considerare anche le provenienze dei visitatori e incrociare i dati per capire quanto il patrimonio risponda alle esigenze dei cittadini, quanto possa rispondere alle esigenze dei nuovi turisti-cittadini e come far nascere nuove attività culturali e creare scambio, integrazione e crescita culturale collettiva.
Serve una nuova regolamentazione e un ripensamento delle professioni turistiche, come delle agenzie di viaggi, delle strutture ricettive e dei tour operator, in genere disinteressati al turismo culturale, come alfieri della delocalizzazione e promotori di una culturalizzazione sostenibile dell’offerta turistica.
Come abbiamo affermato in molte piazze nazionali la cultura non è tempo libero ma il tessuto vivo delle nostre città, e per questo dev’essere considerata anche nell’attrarre nuovi turisti-cittadini.
Cosa abbiamo in mente per il futuro?
Una ripartenza graduale, senza forzature, senza bonus che incentivino gli spostamenti, ma puntando, con sussidi strutturali e mirati, a utilizzare questi prossimi due, tre anni, a riformare profondamente il sistema. Consci delle difficoltà attraversate da tutti a causa della pandemia da CoViD-19, siamo certi che un ritorno al passato sia sbagliato e comunque irrealizzabile in tempi brevi. Le questioni da dirimere sono molte prima di riprendere a viaggiare normalmente e non ha senso limitarsi ad invocare vaccinazioni di massa al fine di ripartire immediatamente con gli spostamenti, in un momento in cui la situazione sanitaria globale è in continua evoluzione. I vaccini sono stati creati per prevenire le infezioni e i decessi, per poter tornare alla normalità serve disponibilità di vaccini per l’intera popolazione, valutare l’effettiva contagiosità di un vaccinato e, probabilmente, raggiungere l’immunità di gregge. Non si è semplicemente messo in pausa un film. Dobbiamo pretendere che ci si concentri per ora sul turismo di prossimità, tutelando innanzitutto la sicurezza di tutti. Per questo avanziamo la proposta di costruire un nuovo piano di sviluppo turistico nazionale, culturale e sostenibile ecologicamente, socialmente e moralmente, a lungo termine, che intervenga di pari passo con la costruzione di un Sistema Culturale Nazionale. Il turismo deve cambiare faccia.
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Come fare marketing e comunicazione turistica per il dopo coronavirus - Vitamina G · 21/02/2021 at 18:37
[…] Perché dobbiamo parlare di Turismo ora? […]