Dopo solo sette giorni e una pioggia di critiche, la Reggia di Caserta ha rinunciato al logo pagato 37 mila euro che aveva scatenato forti polemiche, aprendo al territorio.
“Per dare forma a un brand abbiamo fatto emergere i caratteri profondi che connotano la Reggia di Caserta” dichiarava il 22 aprile la direttrice Tiziana Maffei, presentando il nuovo logo, o meglio, la nuova identità visiva della Reggia.
Una scelta, quella di cambiare logo, dovuta a motivi quali “la definizione di un brand manual”, oppure: “la progettazione di brochure di presentazione della Reggia di Caserta per attività di corporate membership e per la promozione degli spazi museali da destinare a concessioni d’uso per eventi privati”: questa la narrazione del luogo che troviamo in una nota ufficiale della Reggia, patrimonio UNESCO, diretta peraltro dalla vicepresidente di ICOM Italia.
Poi il 28 aprile in una nota la direzione spiegava che “”Reggia di Caserta” è immediato elemento di identità visiva. “Reggia di Caserta” perché tale identità è radicata nella sua città e affinché anche il territorio possa essere trainato dalla internazionalità del Museo. […] La scelta di corredare il nome di un monogramma è emersa, poi, durante i lavori di elaborazione dei vari strumenti, considerando anche la consuetudine delle case reali di caratterizzare le produzioni del casato con le proprie iniziali. “RC” è il marchio delle manifatture borboniche avviate da Carlo di Borbone. Tali strategie comunicative sono, inoltre, coerenti con quanto avvenuto di recente nel panorama museale internazionale” e quindi spiegava che il monogramma sarebbe stato abbandonato, il logo sarebbe stato momentaneamente usato solo con il nome in esteso, e sarebbe stato emanato un bando internazionale “finalizzato alla realizzazione di un segno che dovrà rispecchiare l’identità visiva della Reggia di Caserta a partire, dunque, dal brand “Reggia di Caserta””.
Ciò che avete letto, e che probabilmente sarete costretti a rileggere, non è un errore di battitura. La Reggia di Caserta ha davvero dichiarato l’intenzione di abbandonare un logo, per cui aveva pagato 37 mila euro, nella stessa nota in cui difendeva con forza la scelta di quella specifica identità visiva per la quale però veniva bandito un concorso internazionale. Al di là del salto mortale tentato, e non riuscito, per evitare di far percepire l’abbandono del logo (cambiati i colori, oltre al monogramma) e la ricerca di uno nuovo, l’intera vicenda assume toni ben poco divertenti.
Il ritiro del logo è arrivato a furor di popolo, dopo sette giorni di pioggia incessante di pareri negativi, non solo sui social, dove i commenti negativi erano pressoché unanimi, ma anche da ben altri attori del territorio. Una sollevazione popolare che partiva da un fatto difficilmente negabile: a un semplice sguardo, il logo appariva slegato dal territorio e dalle specificità del monumento. In questo quadro, il fatto che fosse realizzato da un’azienda del Nord Italia (contratti stipulati dalla direzione precedente), che fosse arrivato non per bando ma per affidamento diretto, e che fosse tanto anonimo da ritrovare similitudini e riscontri in loghi di tennisti, case editrici e hotel, non poteva che esagitare ancor di più gli animi, fino ad arrivare a questa conclusione, con imbarazzo e sperpero di fondi pubblici. Ma con un impegno: sì perché ora, la Direzione che “ha, sempre, ritenuto la città di Caserta interlocutore privilegiato”, ora “si fa promotrice di un’iniziativa di partecipazione attiva. Una volta al mese, a partire dal 13 maggio, sarà organizzato l’appuntamento Dialoghi con la Reggia di Caserta. […] Un’occasione per confrontarsi e scambiarsi punti di vista diversi nell’ottica di contribuire alla valorizzazione e alla gestione consapevole del nostro patrimonio culturale”. Questo rapporto diretto e attivo con il territorio dovrebbe essere la prassi per ogni istituzione museale, e invece viene introdotto (una breve ricerca lo conferma) solo a seguito di un avvenimento problematico, per cercare di mettere un freno allo scontento e mostrare attenzione alla comunità delusa.
Se serviva una prova del fatto che i musei autonomi usciti dalla riforma Franceschini siano troppo spesso slegati dal territorio, tanto da arrivare a non avere percezione di come un elemento decisivo come un logo potrebbe essere accolto, se serviva una prova che la cittadinanza può riappropriarsi di quei luoghi, che erano destinati alla trasformazione in fondazioni private, e che ora brancolano nella confusione, eccovela servita.
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