testimonianze di civiltà

Per il Codice dei beni culturali e del paesaggio (art.2, comma 2) sono beni culturali “le cose immobili e mobili che […] presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. Oggi, nel 2020, questa è la definizione che la legislazione italiana dà di bene culturale. O una cosa che presenta un “interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico”, identificato dettagliatamente sulla base di articoli successivi o, più genericamente, una “testimonianza avente valore di civiltà” (potete trovare un riassunto di come si arrivò a queste definizioni qui). 

Sono definizioni adeguate ai tempi che corrono? La prima parte del comma certo potrebbe essere integrata (con categorie quali ad esempio “musicale” o “sociale”), ma è sulla seconda che vogliamo porre l’attenzione. Che cosa significa l’espressione “testimonianze aventi valore di civiltà”? I nostri legislatori conoscono le implicazioni di tale definizione? Probabilmente no, dato che la legge delega con la quale di preparano a riformare il Codice dei Beni Culturali prevede di rivedere tante norme (le alienazioni, le concessioni…), ma non di aggiornare il Codice nelle definizioni fondamentali. Eppure parrebbe davvero il caso.

Sentiamo spesso l’espressione “valori di civiltà” nella retorica istituzionale, politica, giornalistica, in contesti anche molto vari e con connotazioni differenti; per questo è utile andare alle origini etimologiche della parola, per poi attraversare la sua storia recente. Letteralmente (dal latino “civilitas” < “civis”= cittadino) la civiltà è semplicemente la qualità identificativa di chi abita le città. Eppure, anche in un mondo in cui la maggioranza delle persone vive in città, o in megalopoli mostruose, il concetto di civiltà continua ad avere un senso diverso, anzi tanti sensi diversi nel nostro presente. Nei nostri vocabolari si trovano due significati principali, entrambi figli di sviluppi recenti (il terzo è quello di urbanità, buona educazione, che abbiamo già citato). Il primo è “la forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale d’un popolo (Treccani)”: con questo significato il termine è usato in antropologia, geografia, archeologia, e diviene d’uso simile al termine cultura (nonostante l’origine etimologica molto diversa). Si potrebbe supporre che il Codice usi il termine in questo senso, ma c’è una particolarità non da poco: nel Codice il termine è utilizzato con valore assoluto, non si parla delle varie civiltà ma della civiltà.

La formulazione del Codice sembra quindi avvicinarsi al significato di civiltà che, anche secondo i vocabolari, è il più comunemente inteso, figlio di un passato più o meno recente e di eventi non sempre edulcoranti. Ancora dalla Treccani, civiltà è “spesso sinonimo di progresso, in opposizione a barbarie”: e in effetti la definizione più comune di civiltà si è sviluppata come in opposizione a qualcos’altro, qualcosa che civiltà non è; si può dire, anzi, che la parola ”civiltà” sia stata coniata dai cittadini per definire se stessi, in contrapposizione agli altri, a chi abita fuori dalla città, a chi parla un’altra lingua, a chi è diverso e dunque peggiore. Si tratta di una visione che troviamo fin dall’antichità: Aristotele nel IV secolo avanti Cristo affermava che il bàrbaros, il balbuziente, lo straniero, è physei doulos, cioè “schiavo di natura”. Sulla base di simili opposizioni si motivarono espansioni di diversi popoli (cittadini) autodefinitisi “civili” a scapito di altri: da Atene, a Roma, a cui dobbiamo il termine in uso nella nostra lingua italiana, a tanti altri prima e dopo.

La storia di questo schema oppositivo e della retorica celebrativa legata alla (propria) civiltà non si chiude certo in epoca antica. “Civiltà” fu concetto centralissimo nell’ambito del colonialismo e dell’imperialismo europeo in età moderna. Allora, il tema del “portare la civiltà”, potenziato poi dall’ottocentesca idea di “progresso”, ha fornito ampie giustificazioni teoriche ad imprese imperialiste che tutti noi europei dovremmo tenere a mente con vergogna. Tuttora, nella definizione che ne danno i vocabolari, la parola “civiltà” conserva quell’accezione positiva di alto livello di avanzamento materiale, sociale, culturale, in un’ottica che mette in gerarchia i popoli e le culture secondo schemi eurocentrici. Anzi, si potrebbe affermare che la permanenza dell’uso di questa parola nei nostri discorsi, nel senso comune, e perfino nella retorica istituzionale del nostro paese, testimoni la permanenza di modi di pensare etnocentrici: è proprio la parola “civiltà”, fin dalle sue origini, ad essere intrisa di etnocentrismo.

E così la ritroviamo nel nostro codice dei beni culturali. Il valore stesso dei beni è dato dal fatto che essi esprimano civiltà, cui viene dato ha un valore assoluto, esattamente secondo l’antico modello ateniese, anzi probabilmente in modo meno autoconsapevole. Eppure, la parola, nella sua accezione odierna, porta delle macchie storiche che è dannoso ignorare: e anche se si potesse cancellare la storia e usare il termine nel solo senso letterale, cioè intendendo con esso la qualità di chi abita le città, questo non avrebbe alcun senso in quel contesto. Insomma, la definizione di beni culturali come “testimonianze aventi valori di civiltà” o si carica di etnocentrismo oppure perde ogni senso.

Sono passati decenni da quando quella definizione fu formulata, e oggi possiamo affermare che i beni culturali non hanno, non devono avere valore “di civiltà”: devono permettere alle persone e alle comunità di avere maggiori strumenti per interpretare la complessità del reale. Al contrario di quello che fa pensare la definizione attuale di bene culturale, conoscere il passato ha valore perché dà l’occasione di relativizzare la propria cultura, il proprio presente, e quindi di migliorarlo: i beni culturali hanno un valore sociale e culturale, raccontano il passato ma anche il presente, e non solo quello “civile”, raccontano la diversità; la diversità, nel senso di molteplicità, di possibilità, di complessità di questo bellissimo universo, ha valore in quanto tale, e contribuisce ad arricchire una memoria critica collettiva. 

Non è questo lo spazio per proporre una nuova definizione di “bene culturale”, ma è chiaro che qualsiasi legislatore che voglia mettere mano al Codice dovrà porsi le adeguate domande e trovare le risposte. Troppo a lungo ciò non è accaduto. 

Categories: Analisi

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