Leggendo la lunga lista di accorpamenti tra musei diversi imposta dal ministro Bonisoli per decreto il 14 agosto, chi non conosce Venezia sarà rimasto semplicemente sconvolto, turbato, senza capirne il senso: tra questi, non ultima la ex-direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Firenze, trasformate in filiale degli Uffizi.
Chi conosce la realtà museale veneziana, invece, è saltato sulla sedia, comprendendo immediatamente cosa stesse succedendo. A Venezia, i Musei civici sono tra i più visitati e noti d’Italia, comprendendo Palazzo Ducale e il Museo Correr: questi, insieme agli altri 9, sono gestiti dal 2008 da una Fondazione che ha come unico socio fondatore il Comune di Venezia. Sono musei diversissimi tra loro, ricchissimi, che meriterebbero ognuno un proprio direttore e una propria gestione autonoma e organica rispetto alla rete cittadina. E invece. no.
Venezia non è l’unico comune d’Italia ad aver creato una Fondazione per gestire i propri musei civici, ma è l’unico ad avere Palazzo Ducale e flussi turistici abnormi che puntano (anche) a musei civici (a Firenze, Roma e Napoli i musei più visitati sono statali). Dunque a Venezia l’avere creato una Fondazione, oltre a facilitare la nomina di dirigenti vicini alla politica locale, l’esternalizzazione dei servizi e il calo dei diritti dei lavoratori, porta anche la fortunata possibilità, per la Fondazione, di poter essere in pari con gli utili, tra restauri legati all’ArtBonus (che, per come è strutturato, favorisce le donazioni ai siti più ricchi e famosi) e bigliettazione. E di conseguenza di poter giustificare lauti contributi a dirigenti e collaboratori. A patto, chiaramente, di risparmiare sul costo del lavoro e, fatto molto più importante, su tutti i musei della rete civica che non rendono economicamente. Insomma, all-in su Palazzo Ducale, aperto ormai con orari da centro commerciale grazie a lavoratori precari e sfruttati, sacrificando tutto il resto.
Mercoledì 14 agosto sono stati accorpati in un unico istituto (attenzione, lo sottolineiamo, un unico istituto, non una “rete” di istituti, che sarebbe stata invece auspicabile) tutti i musei statali dell’Umbria, tutti i musei statali delle Marche, tutti i musei statali del Friuli-Venezia Giulia e tutti i musei nazionali etruschi. Con l’eccezione dei musei etruschi, che però si trovano sparsi tra Toscana e Lazio in un territorio molto ampio, e vengono accorpati a un istituto romano, questi nuovi macroistituti regionali conterranno musei diversissimi tra loro: pinacoteche, siti archeologici, gallerie, addirittura musei tattili. E questi macroistituti avranno, per legge, un solo direttore che dirigerà tutto dalla sede principale. Ora capite perchè è bene tenere a mente il “modello Venezia”? Perché è l’unico in grado di spiegare una mossa apparentemente folle e suicida. No, non è una mossa folle: gli accorpamenti servono solo ad esportare il modello veneziano ai musei statali etruschi, e poi a quelli di Marche, Umbria e FVG (per iniziare, poi chissà). I neonati macroistiuti pluritematici, sparsi sul territorio, ingestibili, una volta trasformati in Fondazione avranno finalmente senso. Il Ministero potrà nominare dirigenti graditi, senza alcun tipo di conoscenza del patrimonio che vanno a dirigere (ricordate il MAXXI di Roma diretto da Giovanna Melandri?) e poi i nuovi gestori privati potranno decidere di concentrare le risorse (personale, fondi) dei tanti musei inclusi nella Fondazione solo sui musei che fruttano di più, sacrificando tutti gli altri.
Questo ha delle conseguenze. La mancata valorizzazione dei siti minori porta a valanga conseguenze molto più gravi per i cittadini italiani: la concentrazione dei flussi turistici ed economici sulle mete già più note e visitate (Piazza San Marco, a Venezia; Urbino nelle Marche; Trieste nel caso del Friuli-Venezia Giulia…); la trasformazione degli (ex) musei pubblici in macchine da soldi prima che in istituti volti a promuovere lo sviluppo sociale e culturale del territorio; l’allontanamento dai cittadini residenti (per via dei nuovi prezzi, per via dei nuovi orari, etc). Soprassedendo poi sul crollo dei diritti del lavoratori. Tutte queste conseguenze comportano precisi danni economici, sociali e culturali: mentre Venezia muore e i suoi abitanti resistono con forza, mentre la percentuale di italiani che non frequentano i musei è stabile da anni, esportare quel modello in territori già in difficoltà (pensiamo al Centro Italia) è quantomeno pericoloso, per usare un eufemismo.
Badate che già diversi istituti autonomi, creati da Franceschini, hanno incorporato il “modello Venezia”, e già ne stiamo pagando le conseguenze: mentre Pompei scoppia per un numero di turisti abnorme (+300 mila all’anno circa dal 2014) e il biglietto cresce senza prevedere nessuna riduzione per i residenti, in tutti gli altri siti inclusi, o sarebbe meglio dire accorpati, nel Parco archeologico di Pompei (Boscoreale, Oplontis, Stabia) il numero di visitatori è sostanzialmente stabile. E indovinate chi ci guadagna da questo tipo di “valorizzazione concentrata”? No, non i cittadini italiani.
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