Tra 26 e 27 dicembre, per gli appassionati di archeologia pompeiana TV e giornali hanno offerto una vera abbuffata di notizie. Ma ancora una volta si sacrifica la corretta informazione.
Sono feste ricche per chi ama Pompei, feste amare per chi pensa che il racconto archeologico debba offrire conoscenza e chiavi per comprendere la realtà che ci circonda. Peccato che spesso le due categorie coincidano. Il 26 dicembre all’ora di pranzo è balzato sulla stampa un comunicato che presentava con maggior dettaglio un contesto già scavato e annunciato l’anno scorso, un “termopolio” – o cosiddetto tale, dato che il termine utilizzato dai Romani per definire una struttura simile a una odierna tavola calda ma anche ad un alimentari, era più probabilmente popina – ben conservato. Lo presentava con notevole clamore, definendolo “intatto”, e parlando con entusiasmo della presenza di cibo “ancora nelle pentole”: ma queste caratteristiche sono tipiche dei contesti pompeiani da 270 anni a questa parte. A Pompei conosciamo almeno un’ottantina di simili strutture, seppur non tutte oggi così ben conservate.
Gli articoli apparsi in veloce sequenza su diverse testate (qui analizziamo quelli di Repubblica e ANSA e Corriere del Mezzogiorno trovando elementi simili riconducibili quindi a una fonte comune, da individuare, per forza di cose, nel Parco Archeologico di Pompei), spingevano sull’acceleratore del modernismo spicciolo. Parlavano di bottega dello “street food”, portando a una fuorviante similitudine con il mondo occidentale contemporaneo: a Pompei non tutti potevano permettersi una cucina in casa, e il cibo da asporto era il cibo quotidiano, come avviene ancora oggi in alcuni Paesi dell’Oriente, come il Bangladesh o le Filippine. Poco a che vedere, quindi, con le realtà occidentali che conosciamo. Parlavano poi di “paella”: ma sappiamo che la cucina romana aveva ben poco a che spartire con quella spagnola contemporanea. Parlavano di “scritta omofoba”, quando in realtà sappiamo che l’omosessualità era largamente accettata in età romana (lo sfottò riguardava non l’essere omosessuale, ma l’essere passivo nel rapporto). Sono tutti termini fuorvianti, da usare con cautela, utilizzati di tanto in tanto, contestualizzati, da guide turistiche e archeologi in contesti informali per fare confronti con la società di oggi: ma in brevi comunicati stampa ufficiali non aiutano il lettore a comprendere.
In chiusura, il direttore Osanna si soffermava su di un individuo che “potrebbe essere invece un ladro o un fuggiasco affamato, entrato per racimolare qualcosa da mangiare e sorpreso dai vapori ardenti con in mano il coperchio della pentola che aveva appena aperto”. Mentre si sta morendo soffocati, è bene farlo a pancia piena, insomma. Un’ipotesi su cui lasciamo al lettore il commento.
Il comunicato stampa del 26 dicembre ha stupito gli addetti ai lavori non solo per i toni sensazionalistici e l’uso di termini fuorvianti, ormai tipici della comunicazione del Parco Archeologico di Pompei sotto la direzione di Massimo Osanna, ma anche perché il contesto era già stato annunciato alla stampa l’anno scorso. Ma, con ogni probabilità, il rilancio era volto a pubblicizzare il documentario Pompei: Ultima scoperta, che sarebbe andato in onda il 27 dicembre, in prima serata su Rai 2.
Quell’ultima scoperta, costi quel che costi
Il documentario, rara occasione per il pubblico italiano di avere contenuti culturali in prima serata sul servizio pubblico, si configurava come una presentazione degli scavi compiuti negli ultimi anni nella Regio V, parte dei 22 ettari inesplorati di Pompei. Il programma ha mostrato quindi parte dei risultati del Grande Progetto Pompei, iniziato nel 2013 e conclusosi nel 2019. Per scelta registica, il documentario, di produzione francese, si ferma allo spazio della “scoperta” senza soffermarsi sui restauri all’interno di tutto il Parco e agli interventi conservativi portati avanti con gli stessi fondi. Il successo, come prevedibile, è stato notevole: il pubblico affamato di cultura in Italia c’è, la cultura in prima serata è pochissima, e per centinaia di migliaia di persone poter ammirare Pompei è stata una manna nel deserto.
Con una formula curiosa, il direttore del Parco, e anche degli scavi, nonché oggi Direttore Generale Musei (fatto appena accennato nel programma), veniva presentato come “guida d’eccezione” e presentatore del documentario, finendo a condurre quindi una specie di documentario sugli ultimi 5 anni della sua carriera. Da presentatore e protagonista, si recava in biblioteche per ricerche accompagnate da telecamere, e sullo scavo e ponendo domande agli esperti sul luogo: archeologi, archeobotanici, vulcanologi, antropologi fisici, paleografi e così via. Ma era lui a tenere le fila, e così è capitato spesso che proponesse all’interlocutore ipotesi quantomeno azzardate, per sentirsi replicare: “a questo darà risposta la ricerca, non possiamo tirare conclusioni affrettate senza una precisa analisi”. Ma, inutile dire, da presentatore del programma e direttore, l’ipotesi arrivava al telespettatore come buona. Inutile enunciare i rischi connessi al fatto che un alto funzionario ministeriale riduca i ritrovamenti chiave dello scavo archeologico ad ipotesi audaci, rilanciate in prima serata sulle tv di mezzo mondo: fuggiaschi schiantati da massi, dettagli degli ultimi istanti prima della morte, classe e ceto dei defunti, spesso in assenza di evidenze archeologiche a corroborare l’idea. Prendiamo la scoperta, presentata come “eccezionale”, della data a carboncino riportato su di un muro della casa di Giove, che si aggiunge ai numerosi indizi tendenti a postdatare da agosto a ottobre del 79 d.C. la data dell’eruzione. L’iscrizione reciterebbe: “sedicesimo giorno prima delle calende di novembre”, corrispondente al 17 ottobre, non si sa di quale anno. Un tassello importante sì, ma che si aggiunge ad una ipotesi molto probabile già sostenuta da alcuni decenni, e di fatto passata quasi sotto silenzio nella trasmissione. A dir poco fuorviante per i non addetti ai lavori. Mentre l’archeologia riesce a darsi un modus operandi che superi il periodo delle ipotesi imposte d’autorità, che aveva caratterizzato la disciplina fino agli anni ‘70, uno dei rari prodotti culturali trasmessi sulla RAI, e co-prodotto dal più importante Parco archeologico italiano, riduce l’archeologia a romanzo, a fiction.
Pericoloso, poi, parlare di una “ripresa degli scavi, dopo anni ed anni di silenzio”, come se il lavoro di conservazione fino alla ripresa degli scavi fosse stato totalmente ininfluente. Quanti sovrintendenti ed esperti prima di oggi, invece, hanno operato lontano dai riflettori, hanno dovuto subire gli scandali di un sito lasciato privo di risorse e alla sopravvivenza, prima dell’arrivo dei cento milioni del Grande Progetto Pompei.
La Pompei sommersa
Sia chiaro, nessuno mette in dubbio la necessità di avere programmi che raccontino l’archeologia in prima serata. E, lo ripetiamo, si è trattato di una manna nel deserto.
Nessuno mette in dubbio la meraviglia dei colori così vivi, quali uno scavo vesuviano compiuto da poco restituisce. Ci emozioniamo di fronte ad uno scavo che riesce, senza necessità di troppa immaginazione, a offrirci l’aspetto di un ambiente di duemila anni fa con affreschi, stoviglie, come incastonato nel tempo. Questa è Pompei, da 270 anni, ed è straordinaria e unica. Ciò che è cambiato è che non siamo all’epoca dei Borbone, non scaviamo per vantarci dei tesori pompeiani agli occhi delle altre dinastie europee, e non simuliamo ritrovamenti come i Borbone facevano in occasione di una visita diplomatica. Da quei giorni sono passati secoli e noi sappiamo che lo scavo è distruzione finalizzata alla conoscenza, è ricerca – se ad essa vengono destinate risorse -, è l’inizio di un processo. Sappiamo che lo scavo deve portare a studio e ipotesi basate sui dati, non sul colore o la formula più efficace per arrivare sul New York Times in un batter d’occhio. E lo scavo dovrebbe essere anche messa in sicurezza, o quei colori spariranno tra poco se esposti al sole e alle intemperie. Non è più solo “scoperta”, come il racconto della nuova dirigenza pompeiana vorrebbe. La Leda col cigno, citata tra le scoperte dell’epoca di Osanna, descritta anch’essa con termini a dir poco fuorvianti per “fare colpo” sul pubblico, è in pericolo ormai da molti mesi, minacciata dai raggi diretti del sole in alcune ore del giorno, con una semplice lamiera a protezione. Dopo comunicati faraonici del ritrovamento, mancano ancora le risorse – o l’attenzione – per la conservazione. Come accadeva sotto i Borbone.
Chi si reca a Pompei visita una città con mura in molti casi prive di intonaco, perché gli affreschi sono stati asportati e conservati in musei e depositi, oppure consumati dal tempo. Ancora oggi, Pompei è quindi un sito difficilissimo da conservare, ma questo nessuno lo dice (più). Con l’avanzare del tempo, i problemi si aggravano. Pompei è esposta alle intemperie da 270 anni e i soldi non bastano mai per metterla tutta in sicurezza. Ecco perché non si comprende il fine della continuazione dello scavo in queste condizioni. L’opera, pur meritoria, di indagine delle parti del sito ancora non scavate dovrebbe essere inserita in un preciso programma di conservazione di quanto riportato in luce finora: la valorizzazione viene dopo la tutela e non viceversa, pena la perdita del bene che si vorrebbe valorizzare.
Dopo 105 milioni stanziati per il Grande Progetto Pompei i problemi al sito archeologico non mancano, e i soldi sono finiti: sono bastati per comunicati stampa roboanti, ma non per la conservazione. E si badi che il Grande Progetto Pompei vale da solo più del decuplo dello stanziamento ministeriale annuale per l’intero settore archeologia. Ma non solo: metà del personale Ales è stato lasciato a casa durante la pandemia, l’antiquarium di Boscoreale è chiuso da marzo – non ha riaperto in estate come gli altri siti vesuviani – i lavoratori esternalizzati attendono la cassa integrazione e continuano a protestare da mesi, l’itinerario facilitato allestito per le persone con disabilità da marzo ha smesso di funzionare a dovere. No, nonostante le ingenti risorse investite, Pompei non è ancora un successo, come invece ribadito (anche nel corso del documentario) dal Ministro Franceschini, perché l’epoca “di crolli, di scioperi, di cancelli chiusi, di inefficienza” non è finita, è solo sapientemente taciuta dalla stampa nazionale. Il sito è chiuso, nonostante sia all’aperto e sterminato, e proprio Massimo Osanna, in quanto attuale Direttore Generale Musei, dovrebbe occuparsi di un piano per la riapertura. Ma niente di tutto ciò è all’orizzonte, mentre i concessionari ottengono i sussidi legati alla chiusura e i lavoratori restano in cassa integrazione o vengono lasciati a casa.
A questo punto ci chiediamo: qual è il fine della campagna di scavo nella regio V? Perché continuare a portare alla luce, se non c’è un preciso progetto di conservazione? E se invece ci fosse, perché Leda è coperta solo da una lamiera? Che fine farà il “termopolio” quando tra un anno si spegneranno i riflettori a favore di una nuova “scoperta”? A chi può essere utile questo nuovo bagno mediatico a Pompei, questa abbuffata di notizie sensazionali? Ma per Pompei, oggi non c’è spazio per i dubbi. Ora, bisogna solo celebrare. Ora è tutto sbrilluccichio, meraviglia, stupore, eccezionalità. Come ai tempi della scoperta, 270 anni fa, quando la disciplina archeologica ancora non esisteva, e non aveva stabilito dei precisi modus operandi per distinguere la verità storico-archeologica da una storiella natalizia.
1 Comment
Gaetano Perna · 30/12/2020 at 11:18
Complimenti per l’analisi della truffa mediatica. È esattamente ciò che scrivo ed ho sostenuto nei miei ultimi post che hanno avuto il consenso dai più attenti. Grazie per il non “allineamento” dimostrato, ma cosa si può pensare dell’informazione di stato? E della riconversione e del diverso utilizzo dei beni culturali? La loro conservazione da non opporre alla fruizione, anzi al contrario? Cui prodest?