In Italia sono pochissime le donne effigiate nei nostri monumenti, a causa di una selezione che le ha rimosse dagli spazi commemorativi pubblici. Ma possiamo ancora rimediare.
Se proviamo per un momento a concentrarci sui monumenti che ci circondano, ci accorgeremo che lo spazio dedicato alle donne, nei monumenti e soprattutto nelle statue che adornano le nostre città, è pochissimo. Se n’è parlato un poco anche in questi giorni, nonostante il dibattito di queste settimane si stia concentrando molto sui monumenti che ci sono – e che raccontano, o meglio tentano di idealizzare e celebrare un passato scomodo – più che su quelli che non ci sono. L’assenza di donne nei monumenti non è una vicenda italiana, ma qui vogliamo concentrarci sul nostro Paese, chiedendoci il perché di questa assenza.
Sì, perché si può pensare che tutto ciò sia dovuto al fatto che le donne “non hanno fatto la storia”, essendo state per secoli relegate al di fuori della vita pubblica, quindi con meno opportunità di distinguersi per particolari meriti agli occhi della società.
Ma alla prova dei fatti, questa risposta risulta molto parziale.
La presenza e l’assenza
La lista di statue e monumenti dedicati dalle istituzioni italiane a donne e esposti nello spazio pubblico è brevissima. Non è però solo il numero ad essere interessante, ma anche la scelta dei soggetti. Senza pretese di esaustività, queste sono quelle che siamo state in grado di individuare dopo un’attenta ricerca.
C’è più di una statua di Eleonora d’Arborea in Sardegna, dove il codice firmato dalla giudice, straordinariamente avanzato per il XIV secolo, è rimasto in vigore per centinaia di anni; tuttavia, l’unica statua che si trova in posizione centrale è a Oristano (eretta nel 1881). Diversi sono i monumenti a Grazia Deledda, prima donna italiana a vincere il nobel: la maggior parte nel nuorese, ma ve n’è uno, del 1956, anche a Cervia, in Romagna. C’è un monumento a Maria Montessori a Chiaravalle, dove nacque, ma non nelle città dove visse, creò e praticò il suo celebre “metodo” per buona parte della sua esistenza. E va annoverata in questa breve lista di monumenti a tutto tondo una statua a Manuela Arcuri “simbolo di bellezza e prosperità” voluto dal comune di Porto Cesareo nel 2002, in barba alla legge che vieta di innalzare monumenti a persone ancora in vita.
Se arriviamo alle grandi città, scopriamo che negli spazi aperti di Roma la sola Anita Garibaldi – rigorosamente con il nome del marito – ha un monumento funerario dedicato sul Gianicolo, voluto dal governo fascista e inaugurato nel 1932. A Milano la prima donna ad avere un monumento dedicato, nel 2018, è la scultrice Rachele Bianchi: si tratta peraltro di un’opera realizzata da lei stessa e donata al Comune dal figlio. A Torino o a Napoli, solo per fare due esempi, non risultano statue dedicate a figure femminili nello spazio pubblico.
Roma, Gianicolo, monumento ad Anita Garibaldi. Foto di Sergio D’Afflitto, fonte Wikipedia.
Si possono menzionare poi alcuni monumenti funerari all’interno dei cimiteri, o delle chiese, o statue all’interno di edifici pubblici, come quella a Elena Cornaro Piscopia, prima donna laureata in Europa, all’Università di Padova, o busti, ma simili presenze non sono in grado di intaccare l’assenza generalizzata. Si tratta di un’assenza percepibile non solo a livello di statue e monumenti, ma anche, come ha denunciato pochi giorni fa l’associazione “Toponomastica Femminile”, di una disparità quantificabile chiaramente nelle intitolazioni delle nostre vie: solo 7 su 100 portano il nome di donne. Ci sono targhe dedicate a donne, certo, centinaia, spesso presso la loro casa natale, o quella in cui hanno vissuto, o presso edifici a cui queste donne hanno legato la loro vita, come quella di Matilde Serao presso la redazione de “Il Giorno” da lei fondata. Ma non di monumenti che occupano visibilmente lo spazio pubblico.
È impossibile e superfluo, quindi, fare un elenco di chi manca nei nostri spazi pubblici commemorativi. Ma è evidente che nella selezione delle personalità da omaggiare pubblicamente è intervenuto anche un criterio androcentrico, che ha portato al silenziamento di donne che avrebbero meritato un riconoscimento almeno pari a quello dato a molti uomini di cui conosciamo a memoria i volti. Manca praticamente tutta una metà di umanità e di storia.
Seppur i nostri studi scolastici siano anch’essi caratterizzati da un più volte denunciato approccio che tende a rimuovere o ridurre le figure femminili, sono diverse le donne che tutti noi abbiamo avuto modo di conoscere a scuola, e molte altre quelle che avremmo dovuto conoscere e che, a differenza di uomini molto meno illustri, non troviamo effigiate nei nostri monumenti. Alcune sono sovrane di un’Italia preunitaria e hanno quindi subito l’oblio che ha riguardato tutti i sovrani non sabaudi, ma per altre non esiste neppure questa giustificazione. Osservato da questo punto di vista, l’insieme delle opere celebrative italiane sembra un unico, immenso monumento all’androcentrismo.
Può capitare così di trovarsi a sostare di fronte a monumenti di “eroi” coloniali, di cantanti, di industriali, di generali, ma non di potersi invece fermare a riflettere davanti alle immagini di donne che hanno segnato la storia di questo Paese, da Sibilla Aleramo, scrittrice e intellettuale che segnò un traccia indelebile per il riscatto delle donne nel Novecento, ad Ada Rossi, autrice con Spinelli del Manifesto di Ventotene che diede origine al progetto europeo, fino a Trotula De Ruggiero, pioniera di una “medicina per le donne” già nel XI secolo, o ad Anna Maria Luisa De Medici, grazie alla quale le sterminate collezioni medicee arrivano alla città di Firenze e ai nostri musei. Ma la lista potrebbe essere lunghissima.
Nuoro, statua di Grazia Deledda. Foto di Antonio Mette, fonte Wikipedia.
La figura femminile nei nostri monumenti
Se ci sono pochissime donne effigiate nei nostri monumenti, le nostre piazze sono invece ricche di figure femminili. Le figure religiose anzitutto, come le Madonne. Ma per restare sui monumenti laici, abbondano le figure allegoriche e ancillari, come la Vittoria o l’Italia, solo per citare le più diffuse, che di norma o incoronano (un uomo, spesso) o piangono (anche in questo caso spesso un uomo).
Le eccezioni alle allegorie non cambiano il trend. A Castiglione delle Stiviere per esempio c’è un monumento “alle donne eroiche”, realizzato nel 2010 e voluto dall’associazione Carabinieri: le donne eroiche sono quelle che si prendono cura dei soldati morti. Ci sono monumenti, pochi, alle partigiane, di norma collettivi. Spesso, oltretutto, si tratta di monumenti anonimi, non dedicati cioè a personalità individuali, come quello, molto famoso, della biennale di Venezia, in cui una anonima partigiana muore.
Senza nome è anche il “monumento alla bagnante” a Vasto, che rappresenta una ragazza su uno scoglio, e di cui tra l’altro è alquanto difficile dire quale valore femminile stia lì ad omaggiare. Altri monumenti simili riguardano le mamme, o le donne in generale, che o trionfano allegoricamente, o muoiono, o aiutano.
In definitiva, quindi, a parte le poche eccezioni citate sopra, i monumenti dedicati alle donne in Italia hanno i ben poco lusinghieri caratteri di anonimia, idealizzazione e stereotipia. I motivi di ciò si radicano in una lunga storia che va dal mondo greco-romano a quello cristiano, in cui rappresentazioni sacre o allegoriche femminili vengono omaggiate in quanto portatrici di specifici valori, di solito elaborati primariamente dalla parte maschile della comunità culturale. Allo stesso modo, molti moderni monumenti che raffigurano donne sono anonimi non solo perchè vogliono omaggiare un’ampia categoria di persone: essi trasmettono indirettamente l’idea che la donna non possa emergere con il suo proprio nome, con una personalità sua propria e in quanto individuo alla pari con tutti gli altri, ma solo in quanto generica immagine di un valore. E se poi andiamo a vedere quali sono questi valori di cui la donna idealizzata e senza nome viene fatta portatrice, troviamo, guarda caso, la cura, l’aiuto, il sacrificio, il nutrimento, la maternità o addirittura la bellezza: valori che possono essere autentici, ma che di sicuro esprimono solo una piccola fetta del contributo che le donne possono dare e hanno dato alla comunità.
Castiglione delle Stiviere, Monumento alle Donne Eroiche. Foto di Silvia Dellaglio, fonte Wikipedia.
Il coraggio di cambiare
Una tale narrazione, limitata e limitante, ha certo delle conseguenze sul paesaggio mentale in cui gli italiani ma soprattutto le italiane crescono: in un panorama così povero di raffigurazioni femminili, o le donne si identificano con Vittorie, sante, madri e bagnanti, oppure devono sentirsi ignorate e svilite, fuori dai processi storici. Per questi motivi, è sano ridiscutere proprio quei processi storici e culturali che hanno operato sulla scelta dei nostri monumenti: possiamo ancora rimediare.
Non amiamo i miti, nè le risposte facili, dunque non proponiamo di innalzare miriadi di statue di donne mitizzando le loro figure. Ma in primo luogo abbiamo bisogno di dire, ad alta voce, che i princìpi sulla base dei quali sono stati eretti i nostri monumenti, sono princìpi discutibili. Non possiamo cambiare il fatto che il passato ci abbia trasmesso una cultura maschilista e patriarcale e che dunque la statuaria che attualmente troviamo nelle città, così come buona parte della storiografia, inevitabilmente rifletta tale cultura. Però dobbiamo riconoscere collettivamente che così è, che questo è successo, e non fare finta che i nostri monumenti rappresentino una cultura “neutra”.
In secondo luogo, possiamo pensare una nuova monumentalità, diversa, usare la rappresentazione per cambiare anche una narrazione che, come detto più volte, ha generato e continua a generare ingiustizia. Ci servono monumenti che mettano in luce tanto le condizioni di violenta subordinazione che hanno vissuto generazioni e generazioni di donne comuni, private di riconoscimento pubblico del loro valore, quanto il contributo importantissimo che alcune di esse, nonostante tali condizioni, hanno dato alla società riuscendo a lasciare un segno nella storia.
Rimbocchiamoci le maniche e costruiamo, insieme, la soluzione a un problema che troppo a lungo abbiamo evitato di trattare come tale.
Brescia, Allegoria dal Monumento ai caduti delle Dieci giornate di Brescia, detto anche Bell’Italia. Foto di Stefano Bolognini, fonte Wikipedia.
3 Comments
Romina · 30/06/2020 at 06:45
Perché il corpo femminile nella scultura antica e moderna rappresenta o la sessualità, o un’allegoria, o una divinità… massimo massimo trovi un busto di Agrippina con i boccoli sensuali, una Nike decapitata, un’ anoressica in bronzo di Giacometti, una Patria qualsiasi con bandiere e corona, una Madonna Vergine che vale “solo” perché ha sulle ginocchia Cristo….. La vendetta è che sulle statue si appoggiano i piccioni..😇
Gabriele Chiesa · 23/10/2021 at 14:30
Osservo che il censimento dei monumenti femminili non tiene adeguatamente conto delle sculture e fusioni presenti nei cimiteri monumentali.
LlLaura Barnaba · 21/07/2022 at 21:29
Segnalo il monumento ai Caduti di Sorbo, in provincia de L’Aquila che raffigura un soldato che abbraccia una donna che regge un forcone. Un modo per ricordare il lavoro, anche nei campi, delle donne mentre gli uomini erano al fronte. L’ho trovato equo e illuminante!