Alcuni eventi degli ultimi sette giorni rendono sempre più plausibile l’ipotesi che i musei restino chiusi soprattutto per motivi economici a tutela di gestori e concessionari
Perché i musei sono chiusi da due mesi e ancora non si parla di un piano per la riapertura? Gli addetti ai lavori da settimane cercano la risposta, dato che quella fornita dal Ministro, e legata alla volontà di evitare spostamenti e assembramenti, appare priva di fondamento, soprattutto dopo aver assistito alle settimane convulse dello shopping natalizio.
Una sintesi delle ipotesi in campo era stata proposta da Federico Giannini su Finestre sull’Arte il 12 dicembre scorso. Tra queste c’era quella che i musei fossero chiusi per risparmiare e, allo stesso tempo, per non mettere in discussione il criticato sistema delle esternalizzazioni e delle concessioni dei servizi museali; un sistema messo a dura prova dal crollo del turismo e che, guarda caso, era stato istituito proprio nel 1993 di fronte alla crescita dei flussi turistici. Certo, parrebbe strano pensare che si sia deciso di sottrarre alla cittadinanza un servizio pubblico essenziale soltanto per salvaguardare un sistema economico in cui a guadagnare sono soprattutto pochi soggetti privati. Ma l’analisi di tre accadimenti degli ultimi giorni impone di valutare con più attenzione questa possibilità, forse più concreta di quanto sembri.
Anzitutto, la Fondazione Musei Civici di Venezia terrà chiusi tutti i musei almeno fino ad aprile 2021, determinando lo stop in blocco di ogni attività, come la cura delle collezioni o il lavoro di programmazione e progettazione in vista – prima o poi – di una riapertura. Il 30 dicembre, alla conferenza stampa di fine anno, il sindaco e vicepresidente della Fondazione Luigi Brugnaro ha rivendicato tale scelta spiegando che in assenza di turisti “non possiamo buttare soldi al vento”, e che la protratta chiusura consentirà di “risparmiare altri 620 mila euro”.
Il Ministero non ha detto una sola parola sulla decisione veneziana, nonostante la Fondazione abbia chiuso il bilancio 2020 in attivo, addirittura incrementando il proprio patrimonio, grazie ai 7 milioni circa stanziati dal Governo su indicazione del MiBACT stesso. Dopo quasi una settimana dall’annuncio veneziano, questo stesso silenzio ministeriale diviene rilevante: il Ministero sta dunque avallando questa chiusura prolungata?
Il terzo accadimento è uno strano articolo apparso il 3 gennaio su Artribune (testata afferente al gruppo Espresso), dal titolo “E se tenere chiusi i musei fosse la scelta migliore?”. Il pezzo, firmato dal direttore Massimiliano Tonelli, esprime un’opinione simile a quella di Brugnaro, seppur argomentata in modo più ampio: aprire i musei senza turisti rischia di minarne la stabilità economica. Non ci soffermeremo sulla tesi esposta, dato che parte da un presupposto falso (ossia che si parla di “costringere i musei a riaprire”, quando in realtà il dibattito è semmai sulla possibilità di consentire la riapertura in alcune specifiche condizioni) e utilizza una serie di argomenti fallaci, equiparando i musei ad attività commerciali, quando invece si tratta di servizi pubblici al pari di scuole, tribunali o ospedali. La cosa rilevante dell’articolo però è che, nel tentativo di dimostrare la tesi, compie una forzata sovrapposizione tra gli interessi degli istituti museali – che, fatta eccezione per quelli privati, sono finanziati con fondi pubblici e quindi non rischiano alcun tracollo – e gli interessi dei gestori dei musei o dei concessionari dei cosiddetti servizi aggiuntivi, questi sì a rischio andare in difficoltà economica, vedendo gli introiti radicalmente ridotti dopo decenni di crescita esponenziale del turismo.
Chiariamo in che modo il privato che gestisce un museo pubblico, o ha in concessione servizi in un luogo che era attraversato fino al 2019 da massicci flussi turistici, può essere aiutato dalla chiusura. In sintesi, tenendo chiuso, i dipendenti vanno in cassa integrazione, pagata con fondi statali (quindi con i soldi dei cittadini) abbattendo le perdite del privato. Oltre a questo, arrivano i ristori statali per i mancati introiti (basati sui fatturati del 2019) e per le mostre annullate, che garantiscono ulteriori entrate all’azienda. Tutto legittimo, in emergenza. Ma molto meno legittimo nel momento in cui l’emergenza, intesa nel senso più letterale del termine, cede il passo a una nuova quotidianità e questo diviene un sistema strutturale per permettere a pochi di ridurre i costi, eliminando un servizio pubblico e facendo pagare la chiusura ai lavoratori. Qualcuno chiaramente potrà dire: “sì, ma se i concessionari falliscono, i lavoratori restano a casa e quindi non c’è più il personale per riaprire i musei”. Tutto vero, ma la premessa per ogni ragionamento sensato in questa fase è dare per assodato che il sistema delle concessioni va riformato nel profondo.
Possibile che, dal Ministero alle amministrazioni locali, a una parte della stampa di settore, stia acquistando un peso sempre più determinante l’idea di tenere chiusi i musei per salvaguardare gli interessi di pochi concessionari e gestori, che fino ad oggi hanno visto aumentare esponenzialmente i propri introiti grazie al turismo in crescita, senza rischiare nulla? Possibile che si stia facendo di tutto per salvare questo sistema pur di non cambiarlo? La risposta va ottenuta al più presto.
1 Comment
Fabio · 17/01/2021 at 10:59
Da quanto scritto, mi pare evidente che il problema di fondo siano le correnti disposizioni di legge, che favoriscono questo tipo di risultato, rendendo più conveniente per il privato che gestisce il museo rimanere chiuso, anziché aprire.
Mi pare dunque che la soluzione consista nel cambiare la legge.
Questa conclusione trova riscontro positivo da parte vostra? Se sì, esiste un’iniziativa in corso per studiare in che modo la legge debba cambiare, e far quindi pressione sul parlamento affinché cambi?