La Repubblica […] Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
(Articolo 9 della Costituzione Italiana)
Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.
(Articolo 2, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, 2004)
Belgio, Turchia, Iran, Croazia, Corea del Sud, Colombia. Sapete cosa condividono queste nazioni?
L’arte della birra belga, la cucina francese, le cooperative tedesche, sapreste dire cosa hanno in comune?
E invece l’arte dei barcaioli veneziani, la taranta salentina, il Palio di Siena o l’arte del presepe napoletano?
Il patrimonio culturale immateriale, tutelato nel nostro Paese dal codice dei beni culturali del 2004 e da una Convenzione Unesco del 2003 ratificata dall’Italia nel 2007, è un aspetto in cui, data la Storia della Nostra penisola, non siamo di certo secondi a nessuno. Almeno non in Europa, come dimostra la breve lista qui sopra. Peccato che sia una lista di cose che nessuna legge italiana o internazionale riconosce come patrimonio immateriale, a differenza dell’arte della birra belga, della cultura delle cooperative tedesche e della cucina francese, tutte parte del patrimonio culturale riconosciuto dall’UNESCO.
Sapete cos’hanno in comune le nazioni elencate in apertura? Hanno tutte più beni culturali inseriti in quella lista, rispetto all’Italia. Solo in Europa ci superano Francia, Spagna, Croazia e Belgio, mentre siamo alla pari dell’Azerbaigian.
Poco male: un’etichetta UNESCO non è tutto, si dirà, (anche se i flussi turistici sembrano dire il contrario, e la Cina sembra averlo capito bene). Non si può certo pretendere di inserire tutto il patrimonio culturale italiano nelle liste UNESCO, è semplicemente troppo; si può scegliere di puntare su poche realtà a rischio, per rilanciare alcune comunità. Sarà per questo che quest’anno abbiamo puntato sulla pizza (candidatura arrivata anche per evitare che gli Statunitensi facessero diventare patrimonio UNESCO la pizza all’americana. Davvero).
Ma andiamo avanti. Si diceva che l’UNESCO non è tutto, e se la Corea del Sud ci doppia poco male. Ci sono altri modi per tutelare minuziosamente il patrimonio culturale italiano, ad esempio con una lista di Beni Culturali immateriali riconosciuti dallo Stato, come avviene con il patrimonio materiale (monumenti, edifici, beni archeologici o artistici). Una lista che, per i beni immateriali, non esiste. Non esiste.
Eppure esiste una scheda BDI (beni demoetnoantropologici immateriali) pubblicata nel 2002, ma, presupponiamo, ben poco utilizzata. Perché? Perché i demoetnoantropologi all’interno del Ministero si contano sulle dita di una mano e si occupano soprattutto di Musei. Ricordate quanti antropologi culturali saranno assunti con il concorso attuale per 500 assunzioni? 5, tutti di stanza a Roma.
Avete cliccato sul link in apertura dell’articolo? Se sì, avrete notato che rimanda al sito del Ministero dell’Ambiente. Sì, perché nel sito del MiBACT non si parla di convenzioni o definizioni riguardanti il patrimonio immateriale, bisogna accedere ad un sito a parte che riguarda solo le convenzioni e i trattati UNESCO. Tanto il Ministero ritiene centrali i beni culturali immateriali (che, ripetiamo, sono esplicitamente tutelati dal codice del 2004).
Esistono delle criticità per quanto riguarda la tutela del patrimonio immateriale, nessuno lo nega. La soluzione UNESCO, con tutto l’introito economico che ne può conseguire, non è certo l’unica soluzione possibile né per forza la migliore. Per esempio “in molti casi l’ansia di individuare patrimoni locali, anche ai fini delle candidature, provoca una riconversione forzata di quelli che fino a un recente passato sono stati momenti interni ai gruppi sociali, determinati da bisogni di varia natura e destinati a una fruizione locale. Soltanto quando forme di vita, espressività, pratiche devozionali e rituali, produzioni artigianali ecc., vive entro un sistema di trasmissione orale della cultura, sono venute meno, si è cominciato a riconvertirle in patrimoni. Ma queste forme di vita patrimonializzate non sono più le stesse di quando erano forme di vita vissute e dunque i processi in atto di patrimonializzazione sempre più si applicano a mediazioni basate a loro volta su mediazioni, a partire dalla elaborazione della memoria, dalle fonti di varia natura, dai modelli pre-costituiti nel tempo” (Tucci 2013 http://www.iccd.beniculturali.it/getFile.php?id=2963).
Però.
Però le criticità vanno affrontate. Va trovata una soluzione, va formulato un ragionamento, va costruita una progettualità per tutelare anche quella parte del nostro vissuto culturale che non possiamo semplicemente racchiudere tra le mura di un museo o visitare in una città d’arte durante una gita fuori porta.
Oppure consideriamo il nostro patrimonio immateriale indegno? Allora in quel caso diciamolo, eliminiamolo dal codice (già non è presente nella Costituzione, e una revisione dell’articolo 9 in questo senso sarebbe opportuna, ma le recenti riforme costituzionali hanno preferito concentrarsi su altro), sopprimiamo l’antropologia culturale (già esistono pochissimi corsi in Italia), diciamoci chiaro e tondo che solo ciò che si può toccare, solo ciò che è “vecchio”, è degno di essere tutelato e valorizzato, tutto il resto è fuffa per contadini. Vogliamo questo?
Giusto per correttezza, nella lista UNESCO dal 2010 è presente una delle cose che il mondo più ci invidia: la dieta Mediterranea. Non è patrimonio culturale solo italiano però, né la candidatura è stata (solo) italiana, ma è condiviso con Spagna, Grecia, Marocco, Portogallo (che neppure si affaccia sul Mediterraneo), Croazia e Cipro.
Perché noi stiamo fermi, ma il mondo no.
1 Comment
elena · 28/12/2016 at 22:01
Noi stiamo fermi, ma il mondo no…